Egle Palazzolo
C’è una domanda che noi, protagonisti del terzo millennio, a volte finiamo col porci: è cambiata oggi la matrice della violenza? O, a conti fatti, siamo tuttora, ben simili ad una umanità primordiale e non abbiamo dismesso la barbarie, le crudeltà che, della violenza stessa aumentano la cifra e ne costituiscono una sorta di identità?
Cronaca: MAJHUBIN HAKIMI diciottenne atleta afghana viene uccisa dai talebani e decapitata. Un delitto orrendamente perpetrato che si voleva tenere nascosto, come quasi certamente tanti di eguale ferocia. E questo solo perchè la pallavolista di Kabul non voleva lasciare la sua squadra e voleva continuare il suo sport, solo perché anche questa legittima scelta è divenuta irreparabile colpa. La notizia per di più, dopo qualche giorno viene data come falsa e si fa riferimento a un suicidio, caso mai questo potesse affrancare chi, con minacce e persecuzioni, abbia costretta una “donna” appena diciottenne alla più tragica e irreparabile delle soluzioni. Questa giovane afghana, sparita di scena rimarrà in una memoria collettiva fatalmente di breve durata. E si annovererà nell’elenco degli odierni horror che con asciutta commozione andiamo annotando. Ma se l’esempio di violenza come mezzo imprescindibile e quasi come obbiettivo nell’esercizio del potere. Ma se questo episodio purtroppo come tanti, potremmo essere tentati di delimitarlo geograficamente, una serie continua di eventi, indicano quanto è parte di una complessa realtà internazionale. L’uomo di colore soffocato senza scampo da un polizziotto nell’ambito di una cattura, ricordiamo che avviene in America che sino a pochi mesi fa tentava di portare ai telebani contributi di civiltà e democrazia. E’ vero che “la persona umana in astratto non esiste, ma è frutto di una costruzione socio culturale” ci suggerisce un amico che vuole lucidamente abbassare il filo delle nostre paure per evitarci inciampi, ma il disagio di una maggioranza che vive sotto il dictat dell”homo homini lupus” è difficile da superare. E ci lascia increduli e rabbiosi verso gli innumerevoli esempi di crudeltà gratuita verso gli animali. Facciamo riferimento, prendendo un caso come tanti, alla fine di un povero cane che, nei pressi di Avezzano, privato del suo microchip, è stato legato a un albero, forse torturato e finito nel peggiore dei modi dal branco degli uomini. La violenza come lavoretto di giornata, come esigenza, come unica affermazione possibile? Oggi, legittimamente forti di una evoluzione e un progresso che sembrano avere trasformato il nostro pianeta, la nostra indole, di averci avviato a nuove relazioni tra uomini e tra paesi, viviamo forse in un pianeta dove trova posto l’obbiettivo di attrezzare una lunga squadra di perfetti robot gli uni al massacro di altri. Ma, proprio per non generalizzare, proprio per la contemporanea presenza in questo mondo di una quantità di creature che meritano di chiamarsi umane, come è ancora possibile fermare “la barbarie prossimo ventura?”
Ci fermiamo e raddrizziamo il tiro avvalendoci di due essenziali contributi, quelli della storica e scrittrice Amelia Crisantino e dello psichiatra Daniele La Barbera, professore ordinario di psichiatria, Università di Palermo.
Amelia Crisantino
Le amiche di Mezzocielo mi chiedono di riflettere sulla violenza, e sono donne che non si accontentano della prima risposta che viene. Qui, sulla soglia del terzo millennio, in questa parte del mondo tanto più fortunata di altri luoghi, siamo geograficamente lontane dalle tragiche notizie che così spesso ci riempiono di sgomento. Ma chissà se sentircene lontane è un sentimento che può trovare conforto nella storia: davvero ci siamo allontanati da quella che con termine politicamente scorretto si usa definire barbarie? Per gli antropologi, nelle società primitive la violenza viene fermata dal sacro attraverso il sacrificio di una vittima innocente che arresta la catena della vendetta. Nelle società moderne è il sistema giudiziario a regolare la violenza, a incanalarla adoperandone le forme legali per reprimere quelle illegali. In fondo la civiltà coincide con la sublimazione dei conflitti. O forse si limita solo a desacralizzarli e l’Occidente ha fatto prima degli altri: ma da sempre la costituzione della sovranità degli Stati è uno dei processi più distruttivi della storia umana, le nazioni si sono formate nel sangue e i libri ci parlano di guerre, distruzioni, crudeltà. Prima di arrivare alla democrazia e alla separazione dei poteri dello Stato la strada è lunga.
Penso all’atleta afghana uccisa e decapitata, la sua colpa era di voler continuare a giocare a pallavolo.
Penso alle altre donne e agli uomini torturati e uccisi, di cui abbiamo solo vaga consapevolezza. Penso al potere simbolico del corpo femminile e allo stupro da sempre presente in ogni guerra, da sempre premio concesso ai soldati dell’esercito vincitore contro i vinti. Arrivo alla fragile conclusione che quando abbiamo saputo la tragedia dell’atleta afghana abbiamo sentito l’orrore prenderci alla gola: forse la differenza sta tutta qui, nella pubblica opinione che osserva e giudica. Nella sua forza che può orientare la politica, e la giovane Greta sembra arrivata apposta per dimostrarlo.
Mi chiedo quanta differenza possa esserci fra la diciottenne afghana decapitata e le tante donne torturate, impalate o arse vive con l’accusa d’essere streghe, perché nel fondo melmoso dell’istinto di sopraffazione su un altro vivente brulicano pratiche orribili e la violenza non è mai casuale. Oggi sembra essere all’opera un surplus di odio e furore distruttivo che fatica a trovare esempi in altre epoche: tutto merito del progresso della tecnologia, che è cominciato proprio dalle armi e ne ha moltiplicato il potere distruttore.
Con queste armi sono state equipaggiate le milizie di gruppi violenti, lontani da ogni idea di democrazia. Il resto è cronaca.
Quanto al cane di Avezzano non so che dire. Ma quando il carico di frustrazioni che il nostro mondo privilegiato riesce a produrre si trasforma in odio davanti all’essere più debole avviene come una rottura della condizione umana, dove sparisce ogni solidarietà col vivente.
Daniele La Barbera
Vorrei iniziare con il dato forse più scontato – ma non per questo trascurabile – nella lettura delle tante differenti manifestazioni violente nella realtà in cui viviamo, e cioè quella che può essere considerata la componente istintuale di tali espressioni, che attiene all’istinto di conservazione individuale e all’aggressività.
Vale subito la pena però di sottolineare che l’aggressività (da aggredior, andare verso), rappresenta un’energia che va verso l’ambiente per destrutturarlo e assimilarlo; ha quindi anche degli aspetti adattivi ed evolutivi. E’ pure utile ricordare come Sigmund Freud riconduca la violenza alla pulsione distruttiva o thanatos, che si contrappone alle forze dell’eros, e ritenga inoltre che, sebbene la psiche umana, a differenza di quella animale, abbia la capacità di controllare gli istinti, l’aggressività non sia del tutto eliminabile. Questa premessa ci aiuta a cogliere l’articolazione complessa alla quale attiene ogni differente forma di violenza (di genere, sociale, criminale, terroristica) che risulta, io credo, da una stratificazione nello psichismo collettivo dell’uomo contemporaneo di una serie di dimensioni evolutive differenti: il che equivale a dire che nel soggetto post-moderno convivono ancora l’uomo arcaico e primitivo e l’uomo globalizzato dell’era tecnologica avanzata; convivenza tutt’altro che pacifica e armoniosa visto che molte terribili manifestazioni di violenza – come quella dei talebani sulle donne – risulta proprio da un rifiuto della evoluzione socio-culturale dell’età contemporanea e da un prevalere della regressione alla violenza arcaica, molto vicino al magma oscuro della irrazionalità istintuale. Non si dovrebbe fare l’errore di ritenere che questo aspetto arcaico e regressivo sia solo presente nei movimenti fondamentalisti che negano il valore del progresso umano e psicologico; l’uomo arcaico vive tra noi tutte le volte che in contesti culturali e sociali adeguati ad esempio, un individuo che viva a pieno la condizione della civiltà contemporanea decida di togliere la vita alla donna che non è più disposta a condividere con lui uno spazio di vita e di affetti. Da psichiatra devo però anche notare che tali azioni di violenza estrema e irrazionale molto di frequente hanno alla base anche degli specifici aspetti personologici e psicopatologici come – tra i più rilevanti – i tratti narcisistici e antisociali, entrambi caratterizzati dall’assenza della risonanza empatica e della percezione dei sentimenti di colpa quando si commettono atti, anche estremi ed efferati, di violenza.
Tra questi atti oggi suscitano particolare orrore e sconforto quelli perpetrati in Afghanistan contro le donne, che sono, allo stesso tempo, espressione di violenza di genere, violenza politica e ideologica, violenza religiosa. La voragine di insensatezza nella quale questi crimini ci fanno precipitare, al cui fondo sperimentiamo un sentimento del tragico estremamente intenso e doloroso, ci svela un parossismo di irragionevolezza, un’acme psicopatica che ci costringe a rinunciare a qualsiasi codice di lettura, di comprensione o di interpretazione di tali azioni, lasciandoci in preda ad emozioni altrettanto violente di sconforto e di paura. Ciò che la psicopatologia dei regimi fondamentalisti mira, quindi, a ottenere è di farci sentire totalmente indifesi e spaventati. Gli atti estremi del fondamentalismo travestito di religiosità mirano a innescare un processo opposto e contrario allo sviluppo umano, una sorta di de-differenziazione, di tentativo di annullare il progresso verso una forma indifferenziata e regressiva di pensiero unico e totalitario. Ne sono la prova le sistematiche e aberranti distruzioni del patrimonio artistico da parte dei fondamentalisti islamici, che esprimono l’intenzione di cancellare i segni visibili e tangibili dell’universalità dell’arte e delle sue rappresentazioni, come testimonianza dello sviluppo culturale e spirituale dell’umanità e della sua differenziazione verso forme molteplici di rappresentazione dell’umano. Il prodotto artistico viene mortificato a idolo di un’altra cultura religiosa nemica, prodotto dagli infedeli e quindi da combattere ed eliminare. Nel pensiero psicotico del fondamentalismo l’arte quindi non è più patrimonio di tutta l’umanità, nel quale tutti possiamo riconoscerci e identificarci, ma è l’odioso e odiato segno di ciò che è diverso. Si combatte quindi la differenziazione culturale, la differenziazione dei segni e dei simboli, si devasta la bellezza che non si riconosce e che non appartiene a sé, quella bellezza rappresenta una minaccia, per questo si deve distruggerla, perché l’arte degli altri popoli comunica un respiro di universalità.
Sia la violenza nei confronti dell’arte e della cultura (che tutti i regimi totalitari e illiberali temono), sia la violenza nei confronti delle donne che si emancipano o che rivendicano la loro indipendenza rispetto al potere maschile, dichiarano quindi un assetto mentale arcaico e regressivo, un tentativo di invertire la dinamica evolutiva che va verso forme sempre più sviluppate di progresso civile e sociale e indirizzarla verso un pensiero unico e indifferenziato, che non tolleri alcuna differenza o deviazione minima da una ristretto campo normativo imposto con la forza e la sopraffazione del dissenso. E questo aspetto riguarda, pur con differenze significative, la violenza dei regimi totalitari nei confronti delle donne, così come la violenza di genere perpetrata oggi da chi non è in grado di elaborare la propria ferita narcisistica nei confronti della decisione di una donna di interrompere una relazione di coppia, che esprime la sua libera facoltà di scelta, non raramente proprio per i comportamenti violenti e le minacce subite e che hanno contribuito a deteriore irreversibilmente il rapporto.
Il pensiero psichiatrico perderebbe buona parte del suo interesse e del suo fascino se l’analisi dei comportamenti patologici o altamente disfunzionali non consentisse di tornare poi alla salute e alla sua promozione, se cioè, non fosse capace di ribaltarsi in una riflessione sulla normalità e se non indicasse come mantenere o potenziare la normalità stessa e il benessere psichico. Allora, la riflessione psicopatologica e psicodinamica cosa può opporre alla patologia della violenza sulle donne? E quindi, quali sono le forme di esperienza, pensiero e sentimento che consentono una elaborazione degli aspetti più brutali del nostro istinto aggressivo nelle problematiche di genere? Torniamo, anche in conclusione di queste brevi riflessioni, di nuovo a Freud che ci dice che l’istinto aggressivo non può essere combattuto frontalmente; deve essere limitato sviluppando il suo antagonista: l’Eros. Frase ricca di suggestioni, ma di non immediata e dettagliata esplicazione e significazione. Ricorro allora a un’altra citazione, distante quasi un secolo dalla prima, relativa a un autore post-freudiano, o meglio post-junghiano, James Hillman, che ai fenomeni culturali e sociali della post-modernità si è molto dedicato nei suoi approfondimenti originali e ricchi di spunti: “Ho bisogno di qualcos’altro, oltre alla comunità e alla civiltà, perché queste possono essere troppo umane, troppo visibili. Mi occorre quell’aiuto immaginale che proviene da racconti, immagini, ho bisogno di ideali e altari, e delle creature della natura, che mi aiutino a sostenere quanto è così duro da sostenere personalmente e da soli”. Nell’affermazione di Hillman, permeata di suggestioni culturali e psicologiche, viene magnificamente ribadito che al benessere psicologico della persona concorrono una serie di fattori che oggi sono fondamentali in una civiltà che rischia di virare verso una deriva post-umana e ipertecnologica: l’importanza della vita simbolica che si realizza nelle dimensioni narrative, immaginali, valoriali, spirituali, nella cultura della solidarietà e nello sviluppo dell’intelligenza ecologica.
Tutto ciò ha anche delle forti e precise implicazioni educative, non facili e non scontate. La strada più efficace e armonica appare quella di un’educazione al dialogo e al confronto che passi attraverso una corretta alfabetizzazione emotiva, educazione al rispetto, alla valorizzazione delle differenze, all’integrazione sociale e culturale delle diversità, delle fragilità, delle debolezze, educazione e adozione di un sistema di valori centrato sull’uguaglianza, sulla cooperazione, sull’empatia e sulla tolleranza. I bambini e gli adolescenti, oggi più che mai, non hanno necessita di competenze tecnologiche (che per altro acquisiscono da soli e con estrema facilità) ma di capacità di comprendere le proprie e le altrui emozioni, di tollerare le frustrazioni e gli insuccessi, di recuperare il senso del reale e di rispettare e proteggere la propria e l’altrui esistenza.
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