Laura Verduci
Il 18 gennaio, qui ad Addis Abeba, è la festa dell’Epifania per la religione copta, la più praticata in Etiopia. Dalle 10 del mattino, la città sarà chiusa al traffico per permettere ai fedeli delle 44 chiese cittadine di portare in processione i loro “tabot”, una sorta di bauli in legno molto pesanti contenenti le tavolette simbolo dell’Arca dell’Alleanza, avvolti da stoffe preziose. A spiegarmelo è Virginia, un’italo-etiope tornata ad Addis Abeba 7 anni fa. Dopo aver perso il lavoro a Firenze, dove viveva dagli anni ’70, si è reinventata e ha aperto con l’ex marito e il figlio “Puro Amore”, una gelateria romantica, aperta sebbene in ristrutturazione, dove persino alcune produzioni hanno la forma di cuore. Il gelato, che ho provato, è buonissimo e oltre alla bravura, questo è dovuto alla qualità del latte che qui ha ancora un sapore antico e nutriente. Franco, l’ex marito di Virginia, mi parla dell’avvento del comunismo nel 1974 e della cacciata degli italiani e degli italo-etiopi dall’Etiopia; dopo circa 30 anni, con la sua famiglia compie lo stesso viaggio al contrario, stavolta per la crisi economica che investe l’Europa.
Ho poi conosciuto una donna siculo-etiope, il padre proveniva da Caltanissetta; con dolce stupore mi accorgo di fatto che il suo italiano come quello di altri italo-etiopi qui è denso di “sicilianismi”. Un italiano dalle inflessioni e parole siciliane che le mie origini mi permettono di riconoscere e smascherare, mi viene da pensare che si tratti dell’immigrazione figlia dell’ultima, e per fortuna breve, colonizzazione italiana.
Sono arrivata secondo il nostro calendario lo scorso 7 gennaio, qui si festeggiava il natale ed era il 29 aprile 2017. Gli etiopi hanno la loro scansione del tempo a tutti i livelli: in armonia col ritmo circadiano, la prima ora del giorno inizia con l’alba, le nostre 13 corrispondono quindi alle 7, riguardo l’anno invece i mesi sono 13, i primi 12 contano 28 giorni, l’ultimo soltanto 5.
Spazio e tempo, inverno ed estate; sebbene relativamente breve, il viaggio dall’Italia all’Etiopia provoca uno spaesamento che è insieme inebriante e faticoso.
Mi trovo qui per cercare di trovare e parlare con persone sopravvissute alla Noma, una malattia “orfana”, cioè trascurata dalla ricerca medico-scientifica, detta anche “la malattia della povertà”. Colpisce i bambini con basse difese immunitarie tra i 3 e i 14 anni circa, uccidendone in poco più di una settimana il 70%, chi sopravvive vive col peso dello stigma a causa degli strazianti segni lasciati sul volto dalla malattia. Col cambiamento climatico negli ultimi anni sono aumentati enormemente i casi di malaria nell’ est del Paese, tra cui nella regione dell’Amara dove è in corso un conflitto tra etnie. È assai probabile che bambini già debilitati dalla malaria e dagli stenti della guerra si siano ammalati di Noma e che ne possano curarsi.
Gli ospedali di Addis Abeba secondo la mia ricerca non hanno al momento nuovi casi, le condizioni climatiche e politiche ci fanno ragionevolmente e sfortunatamente pensare però che questi siano in aumento.
Cercare le persone sopravvissute alla Noma non è facile, su queste pesa lo stigma tanto da essere nascoste dalla famiglia e dalla comunità.
Alla domanda di mia nipote Camilla prima di partire “zia che vai a fare in Africa?”, la risposta “vado a fare una caccia al tesoro dei bambini malati” restituisce in maniera ludica e romanzata, la difficoltà intrinseca a questa ricerca. Riconosciuta come “malattia orfana” o “neglected disease” il 15 dicembre 2023 dall’OMS, la Noma resta praticamente sconosciuta, persino al personale sanitario e anche qui in Etiopia.
Nemmeno l’Italia ne era indenne: l’altra sera al telefono il medico Pietro Venezia mi raccontava di averne ricostruito la presenza nei bambini dei sassi di Matera nel 1850 circa, le migliori condizioni di vita hanno poi naturalmente impossibilitato l’insorgenza. Come altre malattie orfane, la Noma traccia il confine tra ricchi e poveri, palesando la discriminazione nell’accesso alla salute. Il lavoro sulla consapevolezza e informazione di questa malattia vuole allora essere un atto etico e politico perché non ci si può ammalare per la povertà, e soprattutto, non si deve più morire di povertà.
Laura Verduci è nata a Palermo e vive a Trieste, classe ’79. Da vent’anni attivista per i diritti umani, giornalista freelance e operatrice umanitaria in diverse parti del mondo, attualmente docente di filosofia e scienze umane a Udine. La foto dell’articolo è gentile concessione della stessa autrice.
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