Laura Verduci
Quest’articolo vuole far conoscere una piccola realtà lontana che con una sua modalità originale ricrea e sperimenta giorno dopo giorno la comunità terapeutica sognata e realizzata da Franco Basaglia a Trieste.
Siamo in Africa occidentale e più precisamente a Cotonou, capitale economica del Benin, città tristemente nota per la tratta degli schiavi. Nel quartiere popolare di Calavi, la comunità “Oasis d’Amour” –Saint Camille nata dal sogno e dalla determinazione del fondatore Gregoire Ahongbonon, accoglie una trentina di persone che, dopo un percorso di cura, si prepara per il proprio reinserimento nella società. La struttura religiosa è molto grande e al suo interno contiene più plessi: entrando dal cancello principale lo sguardo è assorbito da una struttura in fondo al parcheggio, azzurra e su due piani, al piano terra una camera per il prete, sui lati due rampe di scale che conducono alla chiesa allestita in terrazza. Ogni mattina, buona parte della comunità si riunisce alle sette per la messa. Esattamente come nell’idea basagliana, riuscire a riconoscere “les malades” non è semplice perché tutti portano abiti comuni, spesso logori, malconci, poveri ma indossati con fierezza e dignità. Dopo la colazione, un tintinnio metallico proveniente dalle cucine richiama gli abitanti per la terapia. Con mio enorme stupore, apprendo che è una paziente a occuparsi della ripartizione dei farmaci, con altrettanto stupore scorgo in fila il prete che poco prima aveva officiato la messa. All’interno di questo luogo già di per sé straordinario, accorgermi che alcuni religiosi sono anche dei pazienti, mi stupisce oltremodo in quanto non avevo mai avuto modo di riflettere sul disagio emotivo degli ecclesiastici, il cui ruolo è nell’immaginario collettivo di aiuto e supporto verso i più deboli. È così che una sera, Suora S. mi racconta di essere affetta da una depressione dalla quale sta gradualmente guarendo, di frequentare un corso per diventare amministrativo e nel frattempo di seguire una dieta per perdere i chili accumulati con gli antidepressivi. Mentre aiuta un’altra “ospite” a intrecciare i miei capelli, sbotta per la mia espressione incredula: “che ti credi, abbiamo avuto una vita e siamo persone anche noi!” – mi dice – poi mi sorride e con uno sguardo molto dolce e perdona la mia superficialità.
Come spesso accade nei luoghi deputati all’accoglienza delle fasce più fragili, anche qui le storie personali rivelano una certa autonomia e creatività rispetto a freddi criteri di ammissione al centro. È il caso di una ragazzina di dodici anni che vive in comunità perché in attesa che sua madre sia dimessa dall’ospedale psichiatrico, e di Dieudonné, un po’ troppo “lento” per una società che non ha alcun interesse nell’assecondare i suoi tempi.
Ci sono poi storie così simili a quelle che sentiamo in Europa, come quella di Jem, una giovane donna del Gambia, che dopo gli studi e la laurea in farmacia in Nigeria, un lavoro come parrucchiera in Marocco, è caduta in una sindrome depressiva, e adesso guarita, si occupa della farmacia della Saint Camille in attesa di un lavoro che le permetta di prendere in affitto un appartamento.
O di Charlotte, per anni cuoca nel suo ristorante, dopo essersi perduta e ritrovata, cucina alla Saint Camille con la speranza di rivedere presto sua figlia che, affidata al marito, vive in Francia.
O ancora Leoni, proveniente da Ganvié, la Venezia di Cotonou, una delle sarte del centro, madre di due gemelli, anche lei gemella, così come tanti altri nella sua famiglia: in molte comunità africane, i gemelli sono creature sacre per la famiglia e il villaggio, nel caso di morte di uno, i poteri magici a loro attribuiti si tramutano in maledizione per il sopravvissuto che spesso assume forma di malattia psichiatrico-esistenziale. Una domenica pomeriggio, Leoni mi racconta della ritualità che avvolge la morte di un gemello: un feticcio di legno viene posto a tavola per il pranzo, una volta “sazio” la famiglia gli chiederà di raggiungere il mondo degli antenati e di tagliare il legame con il gemello per permettergli di vivere un’esistenza libera e serena. Leoni mi racconta di essere ancora legata al suo gemello morto da piccolo e per questo motivo di non riuscire a guarire dalla malattia.
Le storie delle persone che vivono nel centro di Calavi rivelano una dignità e un desiderio di autodeterminazione in condizioni molto più complesse ed estreme di quelle europee. Così come in tante realtà italiane di basagliana memoria, il centro, oltre a essere sostenuto grazie alle donazioni di benefattori, si autofinanzia con le piccole boutiques presenti al suo interno; la bottega di produzioni tessili e il piccolo emporio hanno quindi duplice valenza, da un lato un loro finanziamento autonomo, dall’altro l’affrancamento dallo stigma della malattia.
Laura Verduci è nata a Palermo e vive a Trieste, classe ’79. Da vent’anni attivista per i diritti umani, giornalista freelance e operatrice umanitaria in diverse parti del mondo, attualmente docente di filosofia e scienze umane a Udine. L’articolo nasce dall’esperienza maturata quest’estate in Benin e legata al suo percorso di studi in antropologia culturale presso la Ca ’Foscari di Venezia. È socia dell’associazione Jobel che sostiene il lavoro di Gregoire e della Saint Camille https://jobelonlus.org/, citato nell’articolo.
Grazie Laura. La dignità della persona ammalata è la prima cosa da proteggere.