L’autostrada fra l’aeroporto e la città era piena di macchine e la nostra Polo blu tutta scassata era una delle tante a non vedere l’ora di essere posteggiata sotto casa. Arrivare a Palermo in estate è come infilare la testa nel forno per sentire il profumo di una torta di “bentornata” che però puzza di smog e voglia di pianificare il prossimo viaggio. Io venivo dalla Svizzera, il polmone verde della mia de-formazione artistica che mi stava trasformando in una mitteleuropea con la puzza sotto al naso. Naso che si era abituato a sentire odori come detersivo nelle case e burro in giro per la città.
Sulla A29 salsedine e residui di fogna entravano dal finestrino mischiandosi all’odore della vecchia Polo, muffa e sigarette. C’era un alloggio per la radio proprio a sottolineare la sua assenza in momenti come quello, in cui almeno la musica avrebbe potuto far scorrere il tempo e magari anche il traffico. Grande silenzio tra me e mia madre su una sinfonia di clacson. Dirige il maestro Fastidio. Suona l’orchestra dei miei pensieri: “vorrei raccontarti quanto non sarei voluta tornare, ma non voglio renderti triste”. Mi sento come quel posacenere di fronte a me pieno di mozziconi che ha la pretesa di restare chiuso, ma emana comunque un olezzo degno di un pub newyorkese prima del 2003. Non sono mai stata a New York, ma lo so grazie a Fran Lebowitz e, Dio! quanto avrei voluto essere Fran in quel momento e rompere il silenzio con una battuta geniale. Nel senso che si capisce che ho qualcosa che non va, ma che non voglio dirlo. Ogni volta che torno, mi sembra di essere cresciuta lassù, di aver fatto progressi, di aver ottenuto millilitri di emancipazione liquida – perché mi adatto al contenitore in cui mi trovo – e poi di essere ripiombata bambina e pure all’inferno. Avrei voluto raccontarle quanto si stesse bene in Svizzera e quanto facesse rabbia tornare in quel caos, ma non volevo lamentarmi. A furia di camminare un millimetro alla volta, con mia madre che suda tra metti la prima, frena e vai in folle per riposare il piede sinistro, appare il monumento ai caduti della Strage di Capaci. È stato li che mia madre mi ha detto che voleva tanto fumare una sigaretta e che le aveva finite e che non ce la faceva più a stare in mezzo alle macchine, aveva fatto lo stesso tragitto all’andata ed era stato uguale. Non ci vedevamo da tre mesi. Io ero altrove e lei era completamente lì, aggrappata al volante come se stringerlo potesse servire a creare un varco nell’ingorgo.
Sulla stele c’è scritto: 23 maggio 1992 Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani.
A sinistra il mare, tutto attorno terra brulla e montagne grezze e non più disegnate a matita come nel Ticino. Mia madre ripete che ha proprio bisogno di una sigaretta e io ho un pacchetto di Camel blu morbide nello zaino. Io che non fumo, ma fumo da quattro anni.
Insomma che diamine, se dobbiamo stare qua tutto il giorno almeno raccontami qualcosa, non posso nemmeno fumare!
Racconto che sono contenta di essere tornata, che non vedevo l’ora di mangiare il pesce, che l’insegnante di movimento per la scena mi aveva detto che era impossibile darmi una valutazione perché ero sempre preoccupata per tutto e che pre-occupata voleva dire occupata prima di fare qualsiasi cosa. Tempo dopo avrei associato questo stato all’ansia e alle sedute dallo psicoterapeuta e anche al fatto di aver chiamato il mio gatto Woody Allen perché nevrotico, ma allora mi era sembrata solo una geniale soluzione linguistica. Mi rendo conto di essere lì, con mia mamma, di star dando voce ai miei pensieri e che tra una bugia e una cosa vera, esce fuori la verità. Le racconto che mi fa sempre venire i brividi passare dallo svincolo di Capaci e che bella la Svizzera sì, ma non voglio che mi capiti di rinnegare le mie origini come mi stava appena succedendo, che non bisogna dimenticare, che spero che papà non si arrabbi se vengo a dormire da te stasera e non da lui. Mia madre mi risponde che anche se c’è traffico ed è tutto un casino, anche se ci sono trentacinque gradi e si schiatta dal caldo, anche se “certo che dalla Svizzera a qui un bel cambiamento per te” – quasi a sentirsi responsabile di tutto quel disordine. Dice che è proprio felice che io sia tornata.
Allungo il braccio verso il mio zaino che sta a terra tra i miei piedi e tiro fuori il pacchetto di sigarette. Ne faccio uscire una a metà e gliela porgo. Mamma, tieni. La sua faccia si è divisa in due mezze lune, una arrabbiata e l’altra felice, una delusa e l’altra sorpresa. Ha stropicciato parecchie espressioni diverse come un foglio accartocciato pieno di acquerelli che non si sono ancora asciugati e si mischiano tra loro. Mia madre poi ha detto grazie e che era più una fortuna che una sfortuna. E che però non si deve fumare, che è sbagliato e di passarle l’accendino. È in quel momento che ho pensato di essere diventata grande e che grande non significa giusto.
Biografia di Margherita Celestino
Margherita Celestino nasce nel 1994. Si forma in danza contemporanea e arti performative in Italia e all’estero. Lavora con la compagnia Quelle in Svizzera; col Collettivo Muxarte di Giuseppe Muscarello a Palermo; nel nuovo duo artistico Melluso/Celestino insieme all’attrice Francesca Melluso. Ha pubblicato il suo primo racconto “novanta lentiggini” per la raccolta “Racconti Siciliani” della casa editrice Historica. Ha scritto per la rivista “Tre sequenze”. È istruttrice di Pilates e studentessa di studi filosofici e storici presso l’Università di Palermo.ᐧ
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