Egle Palazzolo

È con” Le grand macabre” di Gyorgy Ligeti che si è aperta la nuova stagione musicale del Teatro Massimo di Palermo. Con un’opera insolita e raramente rappresentata che, in misura abbastanza palese, ha, un tanto sbigottito, parte del pubblico della serata inaugurale. 

Molte e particolari notizie sull’autore ungherese (in realtà ebreo, neppure assimilato tale perché non battezzato, era nato in Transilvania come cittadino rumeno e aveva avuto l’ungherese come lingua madre il cui accento mantenne anche quando si trasferì in Austria ottenendone cittadinanza e in Germania, dove ebbe modo di avvicinarsi a Stockhausen e dove strutturò ben presto una sua formula musicale) sono in un puntuale libretto di sala che poi guida in tutta la sua essenza, l’intera stesura.

Ligeti non ebbe vita facile e senza dubbio dovette assai segnarlo la deportazione nei campi di Auschwitz con la madre, e il padre e il fratello che vi morirono, e da cui riuscì non senza gravi pericoli a sfuggire.

E se la sua sperimentazione di nuovi compattamenti musicali, se le nuove frontiere della nota o delle note che faranno di lui uno dei nomi più citati della nuova musica del Novecento, altrettanto fa pensare e non diviene facile la messinscena dei suoi intendimenti: l’uso delle parole, la loro libertà, la collocazione dei personaggi fra audacia e grottesco, il movimento quasi aggressori degli attori sopra e sotto palcoscenico, la provocazione ma al tempo stesso la paura e lo sconforto volutamente dissimulate da un nuovo che in suo sottile accanimento non dissimula, né forse vuole farlo, irrimediabili paure.

Le grand macabre è un fantoccio, lo si può sconfiggere? Distraendoci con la bellezza, con l’amore, con l’incanto della natura o con lo stordimento e la vaghezza del vino, abbiamo gioco più facile?

L’edizione ospitata quest’anno al Massimo di Palermo, egregiamente e sapientemente diretta da Omer Meir Wellber, con una regia accurata e divertita di Barbora Horakova che indirizza ad uno sguardo dei problemi umani -sesso e potere soprattutto- senza mestizia ma con consapevole ineffabilità ha funzionato egregiamente anche grazie agli azzeccati costumi di scena e all’esito finale che comprende uno per uno chiunque vi sia stato impegnato.

Il tempo per ritornare alle nostre opere tradizionali resta comunque ma accogliamo questo inizio con la obiettività dovuta comunque vadano le nostre inclinazioni e preferenze, in uno splendido teatro quale è quello della nostra città.