Beatrice Agnello
“Che fare per l’Iran? Innanzitutto, non è vero che nulla serva o nulla conti. Anche in Italia, per esempio, potrebbe essere approvata una risoluzione (il parlamento francese e quello olandese lo hanno già fatto) con cui i pasdaran vengano dichiarati un gruppo terroristico e si chieda l’espulsione dell’Iran dalla Commissione Onu per i diritti delle donne (dove la Repubblica Islamica siede, chissà per proteggere quali diritti). Prima ancora bisogna difendere e comprendere il valore della parola: capire il suo ruolo riparatorio, e il manto protettivo che può stendere — come un potere magico — contro l’abuso più stritolante e la violenza fisica, semplicemente svelandoli.
Quando i grandi avvocati per i diritti umani dell’Iran, donne straordinarie come la Nobel Shirin Ebadi o Nasrin Sotoudeh, finiscono in carcere ad Evin, o difendono i loro assistiti che in quella terribile prigione sono stati rinchiusi, chiedono alle redazioni dei giornali occidentali una sola cosa: «Scrivete la loro storia, perché gli salverete la vita».” Scrive così Mara Gergolet sul “Corriere della sera” (9 dicembre ‘22).
Ed è da ricordare alla nostra esausta memoria anche qualche cosa sulle storie di queste due donne straordinarie che ci lanciano un appello, non solo delle loro assistite e di chi oggi si batte in piazza.
Una è Shirin Ebadi, avvocata e pacifista iraniana costretta a vivere fuori dall’Iran dalle traversie che lì ha attraversato, prima persona del suo Paese e prima donna musulmana a ottenere il Nobel, nel 2003, proprio per la sua difesa dei diritti delle donne. A marzo 2016 è stato pubblicato in Italia il suo romanzo biografico “Finché non saremo liberi”. Leggetelo.
Nasrin Sotoudeh, anche lei avvocata e attivista, ha subito ripetute condanne, l’ultima nel 2019: è stata condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate – 148 frustate, non credo che riusciamo neppure a immaginarle – per “incitamento alla corruzione e alla prostituzione” e “commissione di un atto peccaminoso, essendo apparsa in pubblico senza il velo”. Gli anni sono stati poi ridotti a 27 dopo i suoi scioperi della fame e l’inasprirsi delle sue condizioni di salute. Lo scorso novembre a Berlino, in occasione dell’8° Congresso mondiale contro la pena di morte, Sotoudeh è stata insignita del Premio Robert-Badinter.
Pochi giorni prima, l’attivista, ancora in un carcere da cui esce ogni tanto perché fisicamente allo stremo, ha inviato una lettera ai 1.500 delegati riuniti contro la pena di morte. «Io, Nasrin Sotoudeh, avvocato e prigioniera politica in Iran, chiedo al mondo intero e a questo congresso di essere gli occhi e le orecchie degli iraniani in questi giorni difficili».
Azar Nafisi, autrice di Leggere Lolita a Teheran”, in un’intervista a “la Repubblica” (9 dicembre ’22), alla domanda “Come possono le democrazie aiutare le donne iraniane?” risponde: “Parlando di loro. Perché il regime gli dice in continuazione che sono sole, nessuno al mondo si interessa a loro. È una guerra psicologica. Se l’opinione pubblica nei Paesi liberi parla di loro, compie l’opera più decisiva, importante. Non farle sentire sole”.
Ieri, dopo la prima esecuzione di un manifestante iraniano, Mohsen Shekari, 23 anni, riconosciuto colpevole di «inimicizia contro Dio», il direttore della Ong Iran Human Rights ha detto che le esecuzioni di chi protesta in piazza inizieranno a verificarsi quotidianamente a meno che le autorità iraniane non siano messe di fronte a «rapide conseguenze pratiche a livello internazionale».
Le “conseguenze pratiche” non sono solo sanzioni, necessarie e su cui i governi europei si mostrano molto meno risoluti di quanto dovrebbero, suppongo in nome degli affari; e gli USA ancor meno, suppongo in nome del difficile rapporto col regime, dei droni che colpiscono l’Ucraina, delle installazioni nucleari iraniane. Le conseguenze internazionali che possono fermare il regime sono anche le voci che gridano lo scandalo di ogni persona che vuole vivere di fronte alla repressione del desiderio di liberare i capelli e lo sguardo, di baciarsi, di non manifestare una sottomissione mortuaria. Voci che sono, potrebbero essere, amplificatori di quelle che si levano dall’Iran per affermare Donna Vita Libertà.
A suo tempo, la guerra del piccolo popolo del Vietnam contro il gigante USA fu vinta nelle piazze americane ed europee prima ancora che sul campo. La rivoluzione delle iraniane e degli iraniani – una lotta in cui il nemico è così incontrovertibilmente nemico per ogni persona dotata di normale sensibilità umana – dovrebbe avere un consenso ancor più generale; potrebbe sicuramente vincere con il supporto delle piazze dei paesi che hanno quelle libertà elementari che ragazze e ragazzi in Iran desiderano e chiedono.
Ma forse il mondo “libero” è ormai irrimediabilmente sotto anestesia totale e gli unici scomposti moti dell’animo li prova quando viene minacciata la sua comfort zone. E il mio è solo un sogno di ragazza del secolo scorso, appunto di quel tempo in cui qualcuno diceva “I have a dream”.
Aggiungo alcuni dettagli sul modo di operare delle forze di sicurezza iraniane, che sono raccapriccianti. Non solo le torture in carcere e le “confessioni” estorte: il Guardian ha intervistato medici che curano i manifestanti in segreto per evitare loro l’arresto dopo le proteste in piazza e ha riportato che i sanitari rilevano spesso ferite diverse a seconda del sesso: gli uomini vengono colpiti soprattutto alle gambe, alle natiche e alla schiena; mentre nel caso delle donne chi ha sparato ha mirato al volto, al seno e ai genitali. Una scelta altamente simbolica dell’intento di cancellarne lo sguardo, la mente, la sensualità e tutti i segni della femminilità.
Voglio rendere omaggio alle donne e alla rivoluzione iraniana, ricordando FORUGH FARROKHZAD (Teheran, dicembre 1934 – 1967), la poetessa iraniana più famosa, che ha sfidato le regole della tradizione con la sua vita e con i suoi versi esplicitamente e appassionatamente sensuali. La sua tomba a Teheran è meta di pellegrinaggio di tantissimi giovani e non, che vi sostano e recitano le sue poesie.
FORUGH FARROKHZAD (nata a Teheran nel 1934, morta nel 1967)
La Conquista del Giardino
Quel corvo che volò
sopra le nostre teste
e discese sul pensiero confuso di nuvole vagabonde,
e la sua voce come lancia che attraversa
la distesa dell’orizzonte,
porterà con sé in città il nostro annuncio.
Tutti lo sanno,
tutti, lo sanno
che io e te abbiamo visto il giardino,
da quella fessura fredda e triste,
e da quel ramo danzante, lontano,
abbiamo colto una mela.
Tutti temono,
tutti hanno paura, ma io e te
siamo legati alla fiamma all’acqua allo specchio
e non temiamo nulla.
Non parlo del debole legame fra due nomi
e di un abbraccio nelle pagine ingiallite di un quaderno.
Parlo dei miei capelli baciati dalla fortuna
con i papaveri bruciati del tuo bacio.
E dell’intimità dei nostri corpi, serrata,
e della nostra nudità che luccica
come scaglie di pesci nell’acqua
parlo della vita d’argento di una voce
che all’alba mormora uno zampillo minuto.
Noi in quel bosco che scorre
abbiamo chiesto una notte ai conigli selvatici
e nel mare gelido e in tormenta
abbiamo chiesto alle conchiglie piene di perle
e nella montagna estranea e vittoriosa
abbiamo chiesto alle giovani aquile:
Cosa bisogna fare?
Tutti lo sanno
Tutti lo sanno
abbiamo trovato il sentiero nel sogno freddo
e silenzioso delle antiche fenici.
Abbiamo trovato la verità nel giardino,
nel timido sguardo di un fiore senza nome.
E l’eterno nell’attimo sconfinato
in cui due soli si fissano incantati.
Non parlo di un brusio atterrito nel buio
parlo del giorno e delle finestre aperte
e dell’aria fresca
e delle cose inutili da ardere nel fuoco
e della terra feconda di una nuova semina,
della nascita, dell’eterno, dell’orgoglio.
Parlo delle nostre mani innamorate
che sopra le notti hanno costruito un ponte
con il messaggio di luce del profumo e della brezza.
Vieni sul prato
Vieni sul prato
sul vasto prato
e chiamami
alle spalle del fiato del fiore di seta
come una gazzella chiama la sua metà.
Le tende si gonfiano di rancore celato
e i piccioni innocenti,
dall’alto delle loro torri bianche,
guardano la terra.
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