Beatrice Agnello
C’è un non detto che serpeggia fra molti sfiduciati elettori del Pd, ma pochissimo nel dibattito che sta noiosamente portando al suo congresso. Lo esplicito con una frase pronunciata da Anna Finocchiaro in un’intervista sul Venerdì di Repubblica lo scorso 28 ottobre: Il Pci era “una comunità politica, (…) una scuola di formazione, di vita”.
Sembra una nostalgia, ma invece io credo che l’esistenza di partiti così sia un’esigenza imprescindibile della democrazia.
E sono in buona compagnia. Così Giuliano Amato in un’intervista di Simonetta Fiori su Repubblica del 6 settembre 22:
“(…) un tempo partiti come il Pci (ma anche parti della Dc e socialisti) si curavano di far crescere politicamente e culturalmente gruppi sociali e persone, oggi mancano a questo compito e ci lasciano soli davanti a chi le spara grosse dai nostri display. (…) anziché chiarire orizzonti cercano fuggevoli consensi a destra e a manca e finiscono per andare appresso a interessi corporativi e a nimby di ogni tipo. Senza partiti che si curino di nutrire discussione e consapevolezza la democrazia non può funzionare”. E continua “senza luoghi collettivi di discussione e di formazione culturale non si creano opinioni argomentate, si diffondono invece paure e promesse degli imbonitori più efficaci, in definitiva la propaganda da cui siamo bombardati. Se a questo aggiungiamo che cresce sempre più il numero dei cittadini che non sanno decifrare il senso di una frase scritta anche piuttosto semplice, un analfabetismo che colpisce anche gli scolarizzati, direi che il primo problema è che non può esistere nessuna forma di democrazia senza strumenti di crescita civile degli elettori. I partiti democratici dovrebbero provvedere prima di tutto a crearli.”
Già, “La democrazia è il potere di un popolo informato”, come affermava Tocqueville (La democrazia in America, 1840) e come ci ricorda ogni giorno la sua assenza in teocrazie, dittature e democrature che fondano il loro potere sull’impossibilità di accesso a un’informazione plurale quando non addirittura all’istruzione. Ma come si può anche constatare nei nostri paesi liberi, dove ormai il bombardamento di notizie prive di fonti attendibili e l’analfabetismo di ritorno, come sottolinea Amato, nonché una sorta di elementarità emotiva e comportamentale non più considerata qualcosa di cui vergognarsi ma genuinità da perseguire, tendono a renderci incapaci di affrontare la complessità crescente dei problemi e dei temi che ci troviamo davanti e alimentano un senso di impotenza che ci priva del futuro.
Agli argomenti di Amato si possono affiancare quelli dell’editore Giuseppe Laterza su Repubblica del 6 novembre:
“In politica oggi le idee sembrano contare poco e poi, a perseguirle con troppa coerenza, si rischia di passare per ‘ideologici’ (…). In tal modo si finisce per apprezzare solo le ‘competenze’, cioè le conoscenze volte a risolvere problemi concreti e immediati”. (…) “Eppure, come scriveva Keynes, sono ancora le idee a muovere il mondo. ‘Le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose all’infuori di quelle. Gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. (…). Questa frase – con cui John Maynard Keynes conclude la sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta – mi torna in mente a volte quando sento qualche politico definirsi ‘pragmatico’.”
Secondo Laterza, c’è bisogno di discutere di idee e non solo di sfoderare competenze, dunque. Aggiungerei che le competenze sono quelle che deve utilizzare chi amministra la cosa pubblica per trasformare le idee in soluzioni legislative e gestionali, mentre il pensiero è moneta che deve circolare fra le persone, nella discussione collettiva, in una “comunità politica” che sia anche “una scuola di formazione e di vita”.
Ancora Laterza: “occorre che i partiti tornino ad essere luoghi di discussione sul futuro. E vanno moltiplicate le occasioni di confronto tra le forze politiche e le componenti della società civile che operano concretamente per realizzare un mondo più giusto (ma anche più efficiente e con meno sprechi) a partire dalla battaglia contro il cambiamento climatico”.
In proposito, abbasso l’età media degli intervistati che sentono la necessità di soggetti politici in qualche modo impegnati a discutere di idee e a coltivare – come giardini da far crescere, non come vasi da riempire – i cittadini. Ecco cosa dice Greta Thunberg, in “The Climate Book”, In libreria in Italia per Mondadori:
“Molti probabilmente ritengono che ‘Fridays For Future’ sia stato concepito come un movimento di protesta, ma non è così, o almeno non è così che è partito. Il nostro obiettivo primario, all’inizio, era diffondere informazioni sulla crisi, come atto di ‘folkbildning’, che si può tradurre, approssimativamente, con ‘istruzione del pubblico su larga scala e volontaria’, e affonda le sue radici nella comunità della classe operaia nata dopo l’introduzione della democrazia nel paese nei primi decenni del XX secolo, quando (…) a operai e donne è stato concesso il diritto di voto e la Svezia ha iniziato a costruire uno Stato di welfare”. E aggiunge “Sono fermamente convinta che il modo più efficace per uscire da questo pasticcio sia educare noi stessi e gli altri”.
Il “pasticcio” è la crisi climatica e la citazione è un po’ sfrondata ma fedelissima.
Nel dibattito precongressuale del Pd, fra le diagnosi della sua malattia e allo stesso tempo fra le terapie per curarla, gira molto la parola “territori”: dobbiamo ascoltare i territori. Per lo più ci si riferisce agli stati maggiori locali del Pd stesso, ma c’è chi si spinge ad auspicare l’ascolto anche di gruppi attivi nella società.
Questo mi fa venire in mente qualche riunione di circoli Pd a cui ho partecipato in passato, in cui l’unica cosa che si voleva ascoltare era quali erano le esigenze del quartiere, della categoria, al massimo della città, di chi era presente. Cose tipo non ci sono campi sportivi, c’è l’abbandono scolastico, non c’è verde pubblico, ci sono gli spacciatori, non ci sono asili nido, io sono disoccupato, io ho un lavoro precario, ci vorrebbero più biblioteche e più teatri. Tutte cose da tenere da conto, certo, e in genere già note a tutti, persino ai dirigenti locali del Pd.
Se poi qualcuno aveva voglia di analizzare che cosa non funzionava nella sinistra o addirittura nel mondo, veniva preso per uno che faceva discorsi “astratti”, uno lontano dai problemi concreti, dalle esigenze reali.
Se poi era in corso una campagna elettorale, queste esigenze reali venivano ricondotte a “diamoci da fare”: il nostro candidato/a si batterà per la soluzione dei suddetti problemi e anche di quelli più generali, tipo il problema energetico, il cambiamento climatico, le diseguaglianze e le emergenze internazionali. Tutte cose di cui venivano enumerati soltanto i titoli di copertina, ma per cui immediatamente veniva proposta una pubblica manifestazione (facciamo un sit-in: per l’ambiente! contro la violenza di genere! per la pace!).
La mia piccola esperienza e le considerazioni di vasta portata di Amato, Laterza, Thunberg fanno sì che la parola d’ordine “ascoltiamo i territori” mi parli poco. Ascoltare una serie di rivendicazioni sindacali di svariate categorie, nonché del marciapiedi sfossato e dell’asilo che manca mi riesce noiosissimo: questi sono appunto i problemi per cui do volentieri la delega agli amministratori, i quali non sono di per sé la stessa cosa dei politici (ancor più se di opposizione), che quei problemi dovrebbero vederli in una cornice più ampia sulla base di idee e scelte di fondo.
Ma, in realtà, dentro il Pd, occuparsi di politica ed essere portatori di una “cultura di governo”, inteso come amministrazione della cosa pubblica e come occupazione dei posti chiave della sua gestione, sembrano diventati sinonimi. Dal che consegue, per il partito, che quello dell’opposizione è un ruolo un po’ spiazzante; per il singolo “militante” poi, che ormai identifica l’impegno politico con l’aspirazione a una carica pubblica, trovarsi in un’opposizione sempre più numericamente ristretta comporta anche che le occasioni di potere personale sono di meno. Chissà se ricoprire, giocoforza, il ruolo di opposizione a tutto campo, non porterà il partito a rivalutare le “idee” rispetto alle “competenze” e a selezionare il suo personale politico su altre basi rispetto alle obbedienze che fanno parte del corredo minimo per gli scalatori di incarichi. Per il momento, non se ne vedono segnali.
Ecco perché, quando sento i candidati alla leadership del Pd parlare di “ascolto dei territori”, mi viene come minimo uno sbadiglio, più spesso un moto di ripugnanza.
Fra l’altro, visto che la parola territori è intesa in un senso ormai molto frammentato, mi sembra che nel dibattito precongressuale si tenda a degradare quello che è sempre stato e rimane un tema chiave per l’Italia: il Sud. Che si è ristretto al problema dell’autonomia dei territori, da avversare; a quello del reddito di cittadinanza, da confermare e migliorare; alle sue splendide possibilità di sviluppo turistico (sostenibile, ma senza andare troppo per il sottile perché gli appetiti da soddisfare per ricavarne consenso sono molti).
Mi piacerebbe, anziché sentire parlare di ascolto, sentire parlare di coltivazione dei territori. Purché non si identifichi la parola coltivazione con cura del proprio orticello di voti, bacino elettorale da mantenere con promesse e lusinghe. Che vuol dire coltivazione? Vuol dire piantare semi, dargli l’acqua e il concime, lo spazio per mettere radici e crescere, civilmente e culturalmente. È quel che faceva un tempo il vecchio Pci.
Di cui non sono una nostalgica, non essendovi fra l’altro mai stata iscritta, ma a cui ho sempre riconosciuto un grande ruolo nella crescita, dopo il fascismo e la guerra, di una cultura civile nel paese. Far crescere una cultura civile richiede una postura molto diversa da quella richiesta per la rincorsa affannosa del consenso, inseguendo le istanze delle categorie più disparate e tirando un po’ da una parte e un po’ dall’altra la coperta corta di un paese con un debito grande quanto le sue diseguaglianze.
La Sinistra è stata capace nella sua storia di muovere grandi emozioni e grandi masse, lo ha fatto con la capacità di far penetrare nel corpo sociale idee di cambiamento e affrancamento, non con modesti programmi di gestione dell’esistente.
Non ne abbiamo più bisogno? Proprio ora che l’umanità sembra arrivata a snodi cruciali per la sua sopravvivenza, che sembrano richiedere la prevalenza di senso della collettività e spirito mutualistico sugli egoismi individuali? Proprio ora che una rivoluzione culturale sembra necessaria per affrontare le grandi questioni ambientali e tecnologiche e per affrancarci dal dominio dell’avere sull’essere? Proprio ora che quei valori che sono la vocazione originaria di qualsiasi Sinistra sembrano più adatti alla sopravvivenza della specie di quelli dell’affermazione e della rapacità individuale? Sì che ne abbiamo bisogno, abbiamo bisogno di una Sinistra, purché coltivi e faccia crescere qualche idea generale, purché si curi di quella base della democrazia che è la coscienza civile, oltre ad ascoltare competenze specialistiche e bisogni dei territori.
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