Maria Grazia Maltese

 

Foto di Stefania Savoia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mondo si è rimpicciolito, lo diciamo tutti da qualche decennio a questa parte, attraversare l’oceano  non fa più paura e costa mezza giornata di viaggio, possiamo programmare le tappe del soggiorno e  osservare sulle applicazioni le strade su cui cammineremo col naso all’insù, meravigliati, delusi,  curiosi, moderni e a nostro agio. Questo mondo rimpicciolito ha scacciato la vecchia paura  dell’ignoto, della terra straniera, i giovani non sono più ostriche attaccate allo scoglio, sono pesci che  vogliono andare lontano e scegliere a quale scoglio appoggiarsi. 

Se Verga descriveva la migrazione di ‘Ntoni come una tragedia familiare, se Roberto Murolo cantava  le lacrime dell’emigrato napoletano, se negli anni ’60 l’operaio siciliano a Torino veniva compianto  dai conterranei e discriminato dai continentali, oggi il nuovo emigrato è, spesso, un giovane che vuole  esplorare le potenzialità del mondo, l’emigrazione è una scelta comune della fascia media e  benestante della società, il lavoro all’estero o in una grande città del nord Italia è un’ambizione di  emancipazione e di carriera per molti giovani che sognano l’estero e che, a guardarli da fuori, sono  uguali a Torino, a Berlino o a Palermo.  

A guardarli da fuori, però. Che succede se si scava la superficie di questa rappresentazione  globalizzata e internazionale del nuovo emigrato? Se si gratta via la patina di soddisfazione di chi  fuori ce l’ha fatta? Ma, soprattutto, che succede quando il giovane lavoratore all’estero supera i  trent’anni? Perché, a guardare i dati, la Sicilia è ai primi posti per numero di emigrati, ma è anche tra  i primi posti per numero di rimpatri. 

Abbandono subito la statistica per riportare esempi concreti e meno scientifici. Tra i miei amici che  vivono all’estero o al nord Italia, non ne conosco uno che, superata la prima fase di entusiasmo e di  scoperta, non abbia sentito il peso della distanza, la solitudine della terra straniera, il dolore per la  distanza dagli amici e dalla famiglia. Alcuni ne fanno una questione sentimentale, altri arrivano  persino a mettere in dubbio quelli che sembrerebbero oggettivi parametri di superiorità delle nazioni  estere, lasciando intatto il primato in due soli campi: stipendi e trasporti. Tra i vari problemi che  possono coinvolgere o meno le singole sensibilità, ce n’è uno che, prima o poi, è destinato a spezzare  il cuore di chi lavora fuori, a mettere in dubbio le scelte di vita fatte, ed è proprio il rapporto con la  famiglia, il senso di responsabilità verso genitori che invecchiano nella solitudine, in un intreccio di  problemi, sensi di colpa e drammi di difficile soluzione. Perché a vent’anni non pensi alla vecchiaia  dei genitori, il mondo è ancora tuo e l’unica responsabilità è l’affitto da pagare, a quaranta i genitori  invecchiano all’improvviso, ripetono le stesse cose più volte al giorno e iniziano a dimenticare le  cose, diventano meno indipendenti e ti sbattono in faccia la realtà e il senso di quel mondo antico  dipinto da Verga che oggi sembrava così lontano: la nuova generazione ha il compito di badare alla  precedente.  

Tornando per un attimo ai dati, si scopre che un discreto numero di emigrati sono over 65, molti dei  quali prendono questa decisione per seguire i figli e per mantenere unita la famiglia, badare ai nipoti  o far sì che i figli badino a loro, e il problema della distanza con i genitori si risolve obbligando gli  anziani a un reset delle proprie abitudini e all’abbandono della casa di una vita, quella in cui ti  immaginavi di restare fino alla morte. Quando questo non succede, a volte sono i figli a ritornare e,  altre volte, semplicemente, si ricorre all’aiuto di caregiver e si convive con il senso di colpa, e basta. 

Allora, viene da chiedersi, se la paura dell’emigrazione intesa come dramma comunitario, sofferenza  singola e discriminazione è un affare vecchio da antologie letterarie, che forma sta assumendo questo sogno nuovo fatto di internazionalismo e globalizzazione? È davvero vecchia la paura 

dell’emigrazione oppure, dietro la narrazione di un mondo connesso e interdipendente, si nasconde  ancora quel sentimento antico che ci tiene attaccati e che fa versare lacrime nei giorni di festa mancati? Quello che non è vecchio è il problema dell’occupazione e delle opportunità lavorative che  mancano. Finché il trasferimento dei giovani non sarà davvero una scelta libera, ci sarà poco da fare  i moderni, perché i giovani sono sempre più simili a Palermo e a Berlino, ma Berlino e Palermo sono  ancora due mondi distanti.

 

 

Maria Grazia Maltese è Laureata in Filologia Moderna e diplomata presso la Scuola di Teatro Teatés di Palermo. Lavora come regista di laboratori teatrali e di prodotti audiovisivi nell’ambito di percorsi di inclusione sociale realizzati, dall’associazione ‘a Strummula, nei quartieri a rischio della città di Palermo e insegna italiano negli Istituti di Istruzione Superiore della provincia. Con la casa editrice Medusa ha pubblicato “Storie di mare, di ninfe e di pirati “(2019), “Regione che vai, racconti che trovi” (2021), “Racconti dall’Europa “(2022), tre raccolte di racconti per ragazzi ispirati alle leggende del territorio siciliano, nazionale ed europeo. A maggio 2024 ha pubblicato, per la collana Affiori della Giulio Perrone Editore, il suo primo
romanzo dal titolo “Tre amici”.