John Carpenter ha realizzato un film che si intitola Fuga da New York.
Pur non avendolo mai visto, mi sorge spontaneo adottare questo titolo applicandolo ad una mia recente esperienza: la mia Fuga da Milano.
Lo scorso febbraio ho ripreso la valigia rossa con cui sei anni fa mi sono trasferita nel capoluogo lombardo. L’ho tenuta sotto le gambe per tredici ore, durante le quali ho guardato fuori dal finestrino del treno alcuni paesaggi di varie regioni d’Italia. In diversi momenti del viaggio mi distendevo sui sedili, per poi addormentarmi con la mascherina ffp2 sul viso.
Nel 2014, anno del mio trasferimento, Milano era una metropoli horror vacui. Ovunque voltassi il mio sguardo ogni angolo della città era un concentrato di persone allegre, indaffarate e ben vestite.
Camminare nella galleria Vittorio Emanuele significava destreggiarsi in attività sportive di vario genere: fare lo slalom tra la gente, saltare da una persona all’altra avvalendosi di gambe lunghe dieci metri, volare lungo il perimetro della galleria per poi ritrovarsi in piazza Duomo o in piazza Scala dopo circa mezz’ora.
Milano era un dipinto futurista o scariche elettriche pulsanti, incarnava lo spirito della sua metropolitana sempre affollata e sovraccarica, il ritmo incalzante degli eventi più disparati realizzati in ogni angolo della città. Anche in quelli periferici.
Sono tante le persone-spettri in questa metropoli: se tocco i loro corpi spariscono, se parli con loro non sentono, se allungo la mano sul loro ventre questa vi passa attraverso, perforando l’aria.
Il passaggio da una metropoli horror vacui ad una zona rossa è stato traumatico.
Le persone-spettri sono scomparse, forse racchiusesi tra le pareti della galleria Vittorio Emanuele e tra i palazzi, o nostalgicamente nelle fondamenta dei musei e delle gallerie d’arte.
A marzo 2020 Milano è morta. Morta come ogni città d’Italia privata di elementi caratterizzanti, di pulsioni vitali, di atmosfera.
Milano-Horror Vacui si è trasformata nel suo esatto opposto: la paura del vuoto. Il bisogno vitale di riempire ogni angolo della città ha presagito la sua attuale condizione: una città che incarna il vuoto.
Milano non ha il mare. Durante il periodo non ancora cessato della pandemia, Milano è cemento, aiuole smunte, Liberty depresso.
Privata dei suoi eventi culturali energici e dal ritmo incalzante, questa città rispecchia la morte, il vuoto, l’assenza.
Se John Carpenter raccontasse una fuga da Milano, forse resterebbe fedele al suo stile horror misto al genere azione. Non si sbaglierebbe.
Eseguirebbe fedelmente il ritratto di una città angosciata, non abbastanza affascinante da brillare di luce propria poiché dipendente dall’energia culturale che solitamente la caratterizza.
I paesaggi visti dal finestrino del treno due mesi fa sembravano somigliarsi l’uno con l’altro, mi rievocavano la solitudine vissuta ultimamente a Milano.
Intorno alle quattro del pomeriggio ho visto il mare. Guardando Maps nel telefono mi sono accorta di essere in Calabria.
Il mare, ciò che amo di più al mondo, finalmente lo rivedevo dopo mesi.
In quel momento anche lui mi è parso come un horror vacui caratterizzato da acqua e nient’altro.
Biografia di Marta Sollima
Nata a Palermo nel ’95, Marta Sollima a diciotto anni si trasferisce nella vivace Milano per studiare storia e critica d’arte all’Accademia di Brera. Rimane nella metropoli per proseguire gli studi in arti visive alla NABA, per poi laurearsi a Marzo 2021 con una tesi storica sul cinema di Rossellini.
Ama appassionatamente il cinema prodotto in ogni parte del mondo, da quello messicano a quello cinese. Attualmente studia sceneggiatura alla Scuola Holden.
L’esperienza dell’autrice è una riflessione forse condivisa da molti giovani.