fotografia Vittoria Marsala

Vittoria Marsala

In geometria si chiamano movimenti rigidi le trasformazioni che non alterano la forma e l’estensione di una figura. Due figure geometriche sono congruenti quando, in seguito ad una sovrapposizione attuata con uno o più movimenti rigidi che non comportino deformazioni, coincidono perfettamente.

 

Per controllare se due figure sono congruenti dobbiamo procedere ad una sovrapposizione attuando un movimento rigido. Serviamoci della forma per rendere visibile un fenomeno che credo sia rappresentazione pratica di uno dei più profondi cambiamenti dei costumi quotidiani nel nostro tempo. Immaginiamo di fermarci un attimo prima di verificare la congruenza delle due figure, stabilendo che A è lo spazio del sociale, dell’esposizione, A’ lo spazio dell’intimità.

Che le due figure siano congrue o meno in questa riflessione non importa, m’interessa invece guardare quella terza figura determinata dall’incrocio di A e A’.

Il risultato di questa progressiva coincidenza tra lo spazio de “gli altri” e lo spazio dell’io, trasforma radicalmente lo spazio del noi.Il continuo scambio tra la rappresentazione dell’io proiettato verso il “fuori da me” e

l’io materiale dà origine a un doppione ineguale.Un doppio diverso che soprattutto nella generazione dei nati dopo il 2000 tende sempre più verso la profilizzazione virtuale che s’impone sulla realtà dei sensi, innescando interazioni la cui caratteristica principale è la discontinuità.
La discontinuità è una parente stretta del consumo. Non sarebbe poi così brillante sostenere che le immagini degli esseri umani e le loro proiezioni, fatte di mode, di status e nevrosi, siano il prodotto più goloso sul mercato del capitalismo post-umanista. Il linguaggio si adatta alla necessità di descrivere il più accuratamente possibile quelle cose necessarie al raccontarci, con termini senza i quali non riusciremmo a spiegare. Negli ultimi anni quella porzione del lessico che si occupa di descrivere i rapporti umani si è allargata notevolmente per far stare comode parole che, a mio parere, sono esse stesse sintomi di un malessere collettivo e prevalentemente generazionale.
Ragazzi e ragazze tra i 13 e i 18 parlano sempre più spesso di figure torbide che chiamano “i malesseri” con cui intrattengono relazioni altrettanto torbide chiamate “situationship”, rapporti simili a delle relazioni amorose, senza, però, alcun tipo di “committiment” (impegno o patto, che dir si voglia), così da potere fare slalom più agevolmente da un malessere ad un altro quando quello del momento inizia a “ghostare” (non rispondere ai messaggi) o a non guardare più le storie di Instagram. Eppure l’impressione è che l’altro non si veda mai sul serio.
Torniamo alla terza immagine, quella generata dal sovrapporsi di A e A’, lo spazio del noi, inteso in questo caso, come spazio del desiderio. Georges Bataille scriveva che siamo creature strutturalmente e irrimediabilmente discontinue e che la costruzione del desiderio e dell’erotismo sia ricerca innata di continuità ideale, pacificante. Se pertanto il desiderio dovesse nutrirsi di continuità, forse avremmo un problema. Va da sé che il progressivo consolidamento di un consumismo sociale abbia modificato i rapporti umani, ma l’eros dov’è? A livello immaginario siamo portati, per cultura, ad associare l’immagine del desiderio ad un insieme ancora fortemente legato alla scala di Eros che compare nel simposio di Platone. Un desiderio che ascende dal corpo, all’anima, alle idee di chi desideriamo. Corpo, anima, idee. Spezzettando questa triade emerge a sé stante il nodo del cambiamento, il contatto. Lo spazio del noi è quel luogo in cui l’altro si manifesta come è, come non può non essere, il luogo del contatto. Roland Barthes, che però parla d’amore, esaurisce la questione lapidariamente “ti adoro perché ti adoro.” La sempre più diffusa difficoltà a ritagliare nelle relazioni con gli altri più possibilità di contatto è il frutto di un’esasperazione dell’abitudine alla discontinuità.
Nell’intreccio che confonde i piani, può essere utile parlare di politica del desiderio.
Al di là dell’erotismo e degli slanci amorosi, desiderare è tendere verso una cosa che pensiamo bella e la vogliamo perché associamo il suo raggiungimento ad una consacrazione tutta umana di sollievo e di piacere.
Obiezione numero 1! Il tendere verso presuppone ancora un moto più o meno continuo.
Obiezione numero 2, la bellezza è un gran bel rebus. Osserverei quindi che, mentre lo spazio dell’io individuale si trova in una fase di grande instabilità e irregolarità, paradossalmente la
sovrapposizione di A e A’ garantisce alla coscienza delle mode un movimento collettivo e tendenzialmente uniforme.
Un si impersonale e sapientemente globalizzato che procede verso un’idea comune di bellezza, che altro non è che l’induzione del desiderio da parte di attori che coinvolgono non solo i soliti dell’industria del desiderio (il capitalismo in senso lato), bensì di tutti quanti noi, specialmente quando abitiamo le piazze virtuali dei social e le trasferiamo in quelle sotto casa. Veniamo da anni bizzarri che ci hanno portati dentro le case degli altri, ospiti discreti, seppur del tutto inattesi. Mai avrei creduto di visitare la cucina di un mio professore, nonostante il filtro dello schermo, come immagino che lo stesso professore non serbasse alcuna curiosità nei confronti dei pigiamini di alcuni dei miei colleghi. Rieccoci tra le linee dei confini. Tuttavia penso che l’esperienza della pandemia abbia solo amplificato il rumore silenzioso di questo processo di dematerializzazione e proiezione del se’, del noi. Si consolida sempre più il ruolo massiccio delle immagini come giudici del nostro vivere. Non dobbiamo dimenticare, però, che quest’ultime sono da sempre
portatrici di codici legati ad associazioni consce o inconsce che mettiamo in atto attraverso il pensiero. La potenza del linguaggio visivo deriva dalla possibilità immediata che esso ha di fornire degli input allo spazio immaginario, non a caso è ciò su cui si basano le scienze pubblicitarie.
A questo proposito Shoshana Zuboff scrive del “capitalismo della sorveglianza” (In The Age for Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power (Profile Books, 2019)) riportando proprio la monetizzazione di ogni sfaccettatura degli umani nel loro stare al mondo. Sofisticatissima e sempre più raffinata è la ricerca versol’individuazione e categorizzazione dei target, tipologie umane come strane creature con il busto da fruitore e le gambe da prodotto. Ma quindi l’eros perché? Dov’é? É una gran fortuna che nel marzo del 1972 Gilles Deleuze e Felix Guattari abbiano pubblicato “L’Anti-Edipo.

Capitalismo e Schizofrenia”, testo in cui espongono il concetto di macchine desideranti. “Non si desidera mai un oggetto, si desidera dentro un insieme. Quando dico di desiderare un vestito, non desidero in astratto ma sempre in un «paesaggio. Il desiderio consiste proprio nella costruzione di queste relazioni e di questi collegamenti, nella costruzione di tale paesaggio. ”
Il fenomeno della sovrapposizione tra lo spazio dell’esposizione per eccellenza (internet) e quello delle nostre case, dei nostri odori, dei pranzi, delle letture, insomma di quelle cose che al tempo in cui scrivevano Deleuze e Guattari avremmo considerato”privato”, genera una continua produzione di paesaggi fertili per la costruzione di un desiderio indotto dall’influenza determinante dei target. Liberare il desiderio oggi vuol dire anche coscienza dei desideri indotti.”potresti conoscere” “piace anche a” “potrebbe piacerti” Abbiamo costruito paesaggi impalpabili pur di non sentirci soli mai.Tornando alle macchine desideranti, D e G denunciano la rappresentazione antropomorfica della sessualità nella psicoanalisi, ora assume valore sociale e politico una consapevolezza forte che nello spazio del noi il desiderio assuma anche la forma del profilo del gesto, l’erotismo del segreto che è vedere l’altr*, il piacere custodirlo.