Beatrice Agnello
I dati.
Uno scarto di venti punti a favore della coalizione di centrodestra e sindaco eletto al primo turno Roberto Lagalla. Che anche a Palermo il Pd sia stato il partito più votato, per una manciata di voti, è una magra consolazione per chi ci ha messo una croce sopra (in tutti i sensi: nel senso buono, ho votato Miceli, Milena Gentile e Marco Pomar; in quello cattivo ho smesso già da tempo di illudermi sul Pd). Anzi forse neanche una consolazione, visto che questo piccolo dato positivo potrebbe spingere i mediocri personaggi che compongono il suo stato maggiore siciliano a continuare nella direzione da tempo intrapresa, con i soliti metodi equilibristi da signori delle tessere, mettendo in secondo piano che come schieramento “di sinistra” hanno perso di brutto.
In Consiglio, complessivamente, entrano 28 uomini e 12 donne.
Altri fatti significativi:
Un misero 6,45% al Movimento 5 stelle, nonostante il consistente numero di palermitani percettori del reddito di cittadinanza che un minimo di gratitudine gliel’avranno manifestata, e un crollo rispetto alle politiche del 2018 che in Sicilia avevano visto il movimento a un clamoroso 48%. Del resto, ormai le cinque stelle sono passate allo stallo e se ne prevede lo schianto.
Sinistra civica ecologista (in cui era candidato Giusto Catania) non supera lo sbarramento e non elegge consiglieri. Si dice che il temperamento autoritario dell’ex assessore, un rullo compressore nell’imporre ai cittadini le sue idee sulla mobilità sostenibile incurante dei problemi che ha procurato alla mobilità tout court, abbia dissuaso un bel po’ di elettori a votare la lista.
Possono essere contenti invece Azione +Europa e Ferrandelli candidato sindaco, con un buon 14,2% di voti e quattro eletti in Consiglio.
Non mi addentro nella complicata geografia delle liste di centrodestra, comunque in quest’ambito la più votata è stata Forza Italia, mentre Cuffaro ha resuscitato la Democrazia cristiana: la sua Nuova Dc ha preso un rispettabile 5 e mezzo per cento e tre consiglieri.
Il dato più notevole però è forse che ha votato solo il 41,8% dell’elettorato, una decina di punti percentuali in meno della volta precedente. Gli altri hanno ritenuto fatica sprecata recarsi al seggio.
Le zampe dei lupi sui soldi europei?
La prima grande domanda da farsi è quanto abbia inciso sull’andamento del voto l’interesse della mafia e del suo vasto entourage a mettere le mani sui soldi del Pnrr.
In campagna elettorale si è agitato molto lo spauracchio di Cuffaro e Dell’Utri, fra i quali io faccio qualche differenza. La presenza nella campagna elettorale siciliana dell’uomo che ha procurato a Vittorio Mangano, definito da Paolo Borsellino «testa di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia» il suo strategico impiego di stalliere ad Arcore, ha qualcosa di inquietante. Dell’Utri non ha ormai, dopo l’uscita dal carcere, incarichi politici di sorta e si accredita più come bibliofilo che come pasionario (ma sì, una volta tanto volgiamo al maschile una parola usata al femminile): il suo intervento quanto meno, significa che un potere extrapolitico, diciamo così, ancora lo detiene ed è cosciente di detenerlo. Che tipo di potere? In Sicilia, in genere la risposta è una sola e non è rassicurante. Sembra comunque difficile che si tratti di vecchi compagni di scuola o dei campi di calcio, quelli al massimo si possono contare a decine e non costituiscono un grosso bacino di voti per cui valga la pena di alzare gli occhi dal prezioso volume antico che si ha sottomano e scendere giù di corsa dalla bella residenza lombarda ai luoghi natii.
Diverso è il caso di Cuffaro, la cui passione politica democristiana è nota. Non so se l’ex presidente della Regione abbia davvero imparato dai suoi anni di carcere a disfarsi di certe amicizie e cattive abitudini, come afferma, ma gli do credito di una qualche empatia nei confronti dei cittadini non privilegiati e so da Repubblica, per esempio, che il suo candidato alla prima circoscrizione ha preso un sacco di voti perché si adopera per chi si rivolge ai Caf e “assiste la povera gente in coda per risolvere grane burocratiche o dichiarazioni dei redditi”. Cose che sono nella tradizione democristiana anche meno collusa, la tradizione di coltivare buoni rapporti con i postulanti poveracci, che poi ringraziano. Però quello dell’aiutino è un meccanismo di consenso per sua natura parecchio infiltrabile, solo solo per le mediazioni con “chi può” che comporta. Mah! Comunque, sarò ingenua, ma Cuffaro – rispetto a cui mi sento mille miglia distante da tutti i punti di vista – mi sembra tuttavia di altra pasta rispetto a Dell’Utri e il suo ritorno in politica mi turba molto meno.
Tornando alla domanda “quanto c’entrano i soldi del Pnrr e gli interessi più oscuri a metterci sopra le mani con l’esito del voto a Palermo?” Quel che mi preoccupa di più è il mercanteggiamento aspramente conflittuale che si è svolto nel centrodestra per le candidature al Comune e si sta svolgendo per le prossime regionali. La destra divisa dalla lotta per il potere ci ha abituato dovunque a strappi e poi accordi trovati in extremis in nome di un pragmatismo privo di qualsiasi motivazione politica, ma le giravolte indecenti e le spartizioni di fette di torta che si vedono o si intuiscono qui sono tali da rendere evidente che ci sia più di qualche frangia che ambisce alle influenze e ai pacchetti di voti della mafia. E questo si può capire anche senza le intercettazioni di qualche accattone di voti che nella sua sprovvedutezza va a finire in galera, che nelle liste di centrodestra comunque non è mancato.
Mi sembra che Lagalla si fidi troppo di sé stesso e sopravvaluti la sua capacità di tenere a bada gli appetiti più oscuri e salvare la faccia di discreto amministratore costruita negli anni di rettorato. È ovvio che dovrà rendere conto del suo operato al suo ambiguamente variegato schieramento e, se davvero lui si impunterà, gli faranno mancare la maggioranza o qualsiasi possibilità di azione.
I nostri rappresentanti di sinistra dovranno tenere gli occhi ben aperti, senza cadere in strategie del sospetto e giustizialismi alla Travaglio, ma anche senza fare la parte dei fessi, brandendo solo vessilli antimafia ormai scoloriti.
La sinistra, le prossime elezioni regionali, le donne
Le primarie del centrosinistra per le regionali non mi sembra partano bene, appaiono come una copertura per decisioni prese dai soliti più che come un’apertura. Caterina Chinnici è una brava magistrata, oltre che “figlia di”, ma le sue qualità politiche sono del tutto sconosciute agli elettori, come le sue idee, visto che è piuttosto silenziosa.
Pretenderei invece dal fronte democratico di sinistra che scegliesse donne rappresentative di un legame forte con coloro che aspirano a rappresentare: di una militanza politica di provato spessore o di un impegno nel sociale con capacità di relazione e di leadership. Se no la presenza femminile non riguarda l’apertura all’empowerment delle donne ma sembra piuttosto la copertura di un potere ancora saldamente in mani maschili; non una “differenza” di approccio che si nutre di relazioni vive con le persone e i loro problemi, non l’irruzione di un linguaggio diverso dal politichese, ma solo il cambio d’abito per uno più alla moda.
La verità è che ancora vale, sia per uomini che per donne, la regola della cooptazione degli obbedienti e della diffidenza per voci autonome. E, se vogliamo che le donne portino in politica la loro “differenza” e non che servano da cosmetico, c’è solo una cosa da fare: cambiare questo metodo davvero patriarcale. Concordo inoltre con Marco Pomar, candidato consigliere comunale non eletto: “la legge che consente la doppia preferenza di genere, un uomo e una donna dello stesso partito, ha creato solo confusione e non ha portato alcun risultato: 12 donne soltanto su 40 consiglieri. Questo perché, in molte liste, i big maschi hanno utilizzato l’apparentamento con le candidate come fosse un harem, prendendo i voti da più donne e dividendo i propri voti tra le colleghe candidate. Basterebbe obbligare le liste alla parità di numero tra uomini e donne, e cambiare la cultura maschilista dei gruppi dirigenti dei partiti. Ma questa è una rivoluzione assai più complicata”. Già.
Una rivoluzione
Un’ultima riflessione: per questa ed altre rivoluzioni, o anche soltanto evoluzioni, in un paese tanto sfiduciato da portare alle urne molto meno della metà degli aventi diritto, la prima cosa da fare è alimentare una cultura civile e politica, combattere la disgregazione e lavorare alla crescita di un tessuto sociale diverso da quello portato dal suo stesso degrado e dalla povertà di soluzioni collettive all’influsso mafioso. Ricostruire un rapporto con i cittadini e i territori, incrementando una dimensione di comunità piuttosto che lasciando i singoli ad affidarsi agli spacciatori di promesse. Insomma, creando nel panorama smembrato esistente quella fiducia nella forza di un progetto e nelle proprie forze stesse che non si nutre di isolamento ma di relazioni. E non sottrarsi alla responsabilità di avere e trasmettere una prospettiva, ormai da tempo latitante nei discorsi della sinistra. Una prospettiva che deve partire dal farsi carico di ridurre il divario fra chi ha molto e chi non ha niente e fra il meridione e il nord, dall’incidere sullo stato di deprivazione di periferie e territori dimenticati. E dall’essere alfiera di una grande riconversione, produttiva e non solo, mirata alla sostenibilità ambientale, cioè in sostanza di una cultura e di uno stile di vita del tutto diversi da quelli correnti. Tanto più che le questioni sociali e quelle ambientali non vanno facilmente assieme e fare che sia invece così è proprio il compito da porsi, anche come prospettiva per la nostra isola.
Non si parte dal nulla, ma da una Sicilia che oltre alla persistenza dell’inerzia e dei vecchi vizi, manda anche altri segnali: tanti insegnanti a scuola ha fatto un grande lavoro contro la cultura mafiosa dagli anni dopo le stragi del 92. In Sicilia un sentimento antimafioso si è fatto strada, avrebbe bisogno di prospettive e di qualcuno che nutra idee diverse e proponga alternative pratiche e culturali. Associazioni autonome dai partiti lavorano in quartieri a rischio con impegno, generosità e capacità progettuale. Sia per combattere mafia e deprivazione che per il miglioramento del territorio, dell’ambiente, della qualità della vita. Avrebbero bisogno di sponde politiche per solidificare i loro risultati, di una politica capace di mettere in rete esperienze, prenderne spunto e farle crescere. La stessa cosa vale per qualche start up e per una parte di autoimprenditorialità giovane, anche quelle sono segnali di una Sicilia non arresa allo stato delle cose esistente.
A vedere che ormai le uniche forze politiche che cercano un radicamento nei quartieri e nei territori sono Fratelli d’Italia e la Lega – nelle periferie romane o in certi territori del nord, qui forse ci prova Cuffaro con i suoi metodi democristiani – come non arrabbiarsi con i partiti di sinistra?
A vedere le forze del volontariato cattolico, capaci di aggregazione e intervento sociale come ormai da decenni la sinistra non è più, come non ripetere la solita frase che i voti ormai la sinistra li prende quasi solo nelle Ztl delle città?
Non ci sono scorciatoie. La strada è questa e in questa tante donne hanno e possono avere una parte molto significativa, che la sinistra può e deve valorizzare. Senza guardare alle cordate, alle appartenenze, alla sottomessa complicità con capi tutti maschi, ma alle capacità di autonomia e di disobbedienza, di guardare non tanto al nuovo, parola abusata, ma all’altrimenti rispetto ai giochi di potere di cui si divertono bambini mal cresciuti perché non si sono mai staccati dalle poltrone e diventati miopi perché hanno logorato gli occhi a furia di contare quante tessere e quante preferenze hanno in più del loro rivale compagno di partito. Ecco, vorrei un coraggioso altrimenti.
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