Deborah Pirrera
Faccio parte della ormai nutrita schiera dei lettori di Come d’Aria, libro che si è aggiudicato il recente Premio Strega, a mio avviso tra i più meritati degli ultimi anni, e che ha fatto e fa ancora discutere tra sostenitori, denigratori e chi si astiene dalla lettura perché il coraggio di affrontare quelle pagine ancora non lo trova. Faccio parte di un sotto gruppo, quelli che lo hanno letto ancor prima che quel Premio se lo aggiudicasse e che finisse sotto i riflettori per svariate ragioni, non ultima la recente scomparsa dell’autrice Ada D’Adamo; letto in tempi direi insospettabili quando viveva nella penombra di una casa editrice rispettabile e coraggiosa, dati i risultati, e pertanto lontano da quei riflettori e da quella ribalta alla quale a volte la vita stessa ci sottopone noi nonostante. Letto nella sua integrità letteraria tanto da poterlo assaporare e apprezzare senza un prima o un dopo.
Mi dispiace dover annotare di far parte di una ulteriore categoria di lettori, mi auguro ristretta, andati oltre la copertina, intendo letto dalla prima all’ultima pagina. La mia recensione oggi giungerebbe tardiva e forse inutile, tanto si è detto e si dice, se non fosse accompagnata da riflessioni personali che forse aiuterebbero chi non ha ancora letto Come d’aria a trovare la ragione di farlo: come libro necessario nel ricordarci che esiste anche il dolore, un dolore che si associa naturalmente alla vita, che ne fa parte, che non va urlato ma riconosciuto e per quanto possibile accettato e nobilitato, al quale non va cercata una ragione perché ragione non c’è se non la sua pura essenza. Esistere in quanto tale, che ci piaccia o no. Raccontato attraverso la storia di una madre e di una figlia, la storia di un amore potente come solo quello tra una madre e una figlia può essere e se vogliamo banale, nell’accezione di scontato, se non fosse che la figlia è affetta dalla nascita di un male incurabile e invalidante e la madre che se ne prende cura morirà di altro male, anch’esso feroce, che la porterà a essere altrettanto invalida e impossibilitata a perpetrare quelle amorevoli cure. Un racconto potente, oltre la sua semplicità.
Poco dopo la lettura del libro di Ada D’Adamo mi sono ritrovata a rileggere Carver, ripartendo dal testo “Cattedrale” a mio avviso un capolavoro senza tempo. Mi è parso che l’associazione di quelle letture fosse dovuta al caso. Mai autori sono stati più lontani per stile, genere, formazione. Ma io tendo a non credere nel caso. Anche Carver mi ha parlato a suo modo del dolore, ancora una volta di un dolore che fa parte del quotidiano e pertanto non va sbandierato, recriminato, forzato perché il lettore lo colga. Lo ha fatto attraverso i suoi racconti brevi di famiglie sgangherate, interni di cucina al neon, bottiglie vuote, cicche nei posacenere. Ma entrambi, e questa è forse la chiave, mi hanno parlato soprattutto degli spiragli di luce che quel dolore lascia passare e che sono la vita. E lo hanno fatto in un momento in cui ne avevo davvero bisogno.
Deborah Pirrera vive a Milano ed insegna Lettere in una Scuola Statale. Ha collaborato come Giornalista Pubblicista per la pagina culturale di La Repubblica Palermo, D Donna, Il Corriere di Como, Il Corriere Fiorentino; scrive di Cultura per riviste e magazine. Blogger e autrice di racconti brevi e di testi teatrali tra cui il recente reading “Migranti”. Tiene corsi di Lettura ad alta voce dal 2018. E’ autrice del libro “Mamma 4 per cento” 2019, Torri del Vento editore e “Com’è andata oggi a scuola?” Porto Seguro Editore 2022.
Scrivi un commento