Laura Verduci
Il deserto di Atacama: conflitti ambientali e sociali sotto una patina magica e dorata
16 maggio 2024, San Pedro di Atacama.
“Mamma sono su Marte, quasi. Paesaggi lunari mi hanno accompagnato dall’aeroporto fino al villaggio di San Pedro di Atacama che in realtà è una oasi. Mi sento quasi il protagonista del libro di Paulo Coelho, giunta nel deserto per circostanze misteriose”.
Questo è il messaggio che ho inviato a mia madre mentre cenavo, la prima sera, in un posto semplice, con personale gentile e clienti vari, tra autoctoni e turisti più o meno sbruffoni.
Non so da dove iniziare, il viaggio è cominciato appena stamattina e sembrano passati cinque giorni per l’irruenza e la copiosità di informazioni, stimoli, emozioni. Per esempio adesso scrivo sotto ricatto. Ero appena arrivata in ostello, quando apprendo che dividerò la stanza con un ragazzo di San Paulo, ci presentiamo, dopo poche battute, mi racconta del suo trekking, che non riesce a descrivere l’emozione, che ha pianto quando è arrivato ai 5000 metri di altitudine, racconta tanto, si apre e allora gli dico che ha vissuto un rituale di passaggio, gli spiego cos’è e che anch’io sono venuta per un motivo simile, mi guarda incredulo, dice che è incredibile che sia arrivata io per dare nome alle sue emozioni e mi dice: “Dove posso leggere le cose che pensi? Per me è importante sapere cosa dici tu sui luoghi e le emozioni”. Resto di sasso anch’io, come le montagne che sembrano dune che mi hanno seguito sulla strada tra l’aeroporto di Calama e San Pedro di Atacama.
Eccomi qui allora a scrivere dell’allunaggio, perché comunque come mi ha detto Ugo, uno sconosciuto trasformatosi in “shoten zenjin” (un’energia protettrice secondo la religione buddista) nello scambio di poche battute: “qui è tutto estremo, è un altro pianeta”.
Lo conosco in fila per comprare il biglietto del passaggio per San Pedro di Atacama dall’aeroporto, gli ero sbadatamente passata davanti nel fare la fila e lui era rimasto placido, ho intuito che era una brava persona e che non era un turista, mentre aspettiamo il “pulmino” (che dolcezza in questa parola di sicula memoria), gli chiedo dove cenare.
In auto, mi siedo vicino a lui e attacco bottone, scopro che lavora in un ostello e che conosce a fondo questo deserto. Originario di Valparaiso, a un certo punto della sua vita si trasferisce a Santiago dove lavora come programmatore di computer, vive lì 10 anni per poi cambiare nuovamente pelle trasferendosi questa volta a San Pedro di Atacama, luogo estremo, di confine, nel suo caso forse, anche, di auto confinamento.
Mi chiede che piani ho, ovviamente io ne ho abbozzato uno estremamente sbilenco e sommario, consapevole che se fosse già perfetto, l’avrei mandato all’aria per noia. Nel viaggio mi piace farmi condurre dalla contingenza, dalle persone, dall’istinto, organizzare previamente uccide per me quell’euristica incertezza che in fondo è la stessa spontaneità. Rispondo che ho tre giorni a disposizione, esclusi oggi e lunedì. Oggi pensavo di fare un’osservazione astronomica ma la luna è crescente, quindi luminosa e di conseguenza oscurante, inoltre questo tipo di luna spesso viaggia accompagnata da un seguito di nuvole che, gelose, non consentono l’osservazione. Con fare timido e rispettoso, Ugo boccia il mio programma e inizia a raccontare quello che sa sul deserto un po’ per piacere e per aiutarmi a organizzare le mie giornate nel deserto.
Mi racconta quello che ha imparato negli ultimi dieci anni, che Calama e San Pedro sono oasi, infatti hanno un po’ di vegetazione, che qui la terra è sismica e che molte di queste montagne erano subacquee (come nelle Madonie, strana e dolce coincidenza). Mi racconta che la lingua autoctona di Atacama è il Kunso e non il Quechua. Quest’ ultima identifica piuttosto peruviani e boliviani, la confusione nasce dal fatto che fino a soltanto duecento anni fa la zona del deserto apparteneva alla vicinissima Bolivia.
Mi chiede che dimestichezza ho con l’altitudine perché San Pedro si trova a 2000 metri rispetto a Santiago che di suo è a 500mt dal livello del mare. L’altopiano inizia a 3500mt, i Geiser che voglio andare a vedere a 4500mt. Mi spiega che per evitare “l’apunada” (una sorta di mal d’altitudine) occorre essere idratati, evitare carne e alcool, dormire e meditare, una pratica quasi ascetica, mi viene da pensare, in linea con la spiritualità intrinseca di questo posto.
19 maggio 2024
Sto per cenare, queste giornate con i ritmi estenuanti delle agenzie sono trascorse volando. I turisti sono liberi finché non scelgono l’agenzia con cui fare i tour, da lì in poi sono burattini, schiavi di programmi e ritmi frenetici. L’offerta è copiosa, varia, fantasiosa e per tutte le tasche. Dalle 5 di mattina è un brulicare di pullman e persone assonnate. Difficile muoversi autonomamente, direi che è anche boicottato. I tour sono giornalieri per le destinazioni più distanti, di mezza giornata e notturni per le osservazioni astronomiche, nuvole e luna permettendo. Le agenzie sono almeno 300 e gestite maggiormente da cileni, le guide turistiche sono perlopiù cilene e alcune brasiliane visto l’afflusso di turisti da quelle zone. I lavori più umili toccano ai boliviani, soprattutto alle donne che emigrano in prevalenza sole. Non ho conosciuto nessun autoctono di San Pedro, non si mischiano, il turismo non è il loro business principale. Mi dà un po’ l’idea di Stromboli, la gente di Ginostra malvolentieri si mischia coi turisti; in fondo anche San Pedro è un’isola circondata da vulcani e deserto.
Nessuno ruba nulla a San Pedro, il turista non si tocca, è una regola sociale, tacita. Rubare non potrebbe portare maggior vantaggio di tutto il denaro che piove qui, anzi al contrario potrebbe incidere negativamente sul business. Sembra però che il più grande introito non provenga dal turismo ma dalle miniere. Dagli anni ’20 del secolo scorso nel deserto più piccolo, più alto e secco al mondo si è provato a estrarre di tutto: petrolio senza però trovarlo e poi rame, zolfo, minerali vari e litio. Scopro della presenza di 5 miniere in zona, la più grande al mondo a cielo aperto si trova a Calama, la città con aeroporto più vicina al deserto. Sembra che sottobanco le grandi multinazionali corrompano le comunità indigene con ingenti somme di denaro per ottenere in cambio il silenzio e l’assenso rispetto all’attività di estrazione del litio. Il dramma ecologico è che insieme al litio vengono contaminati e estratti enormi quantitativi d’acqua: sebbene esistano tecniche più avanzate che preserverebbero le saline dislocate nelle diverse zone del deserto, sono utilizzate altre più economiche a detrimento dell’ecosistema e del turismo. Si assiste allora a un conflitto paradossale tra i nativi asserviti alle multinazionali del litio e gli addetti al turismo scoraggiati e delusi per le scelte dei primi. Tutto ciò rimane impercettibile sotto la polvere del deserto e l’aurea magica dei paesaggi. Mi chiedo come starebbero adesso le cose se il Cile nel 1789 avesse perso la guerra con le vicinissime Bolivia e Perù.
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