Margherita Celestino

13.03.22

È da più di un mese che mi sono dimenticata come si scrive. Premo i tasti del computer per vedere se ancora spuntano le lettere e sì, ci sono, ma io non so come metterle in fila. Mi sono venute diverse idee in questi undici giorni di isolamento: scrivere pezzi per la stand up comedy; scrivere di come vorrei che fosse la mia vita; inventare una storia sul mondo dal punto di vista delle mosche. Ho pensato anche di fare delle dirette su instagram in cui leggevo ad alta voce testi dei miei filosofi preferiti. Ho persino ipotizzato di studiare! Ho lasciato cadere tutto. Ho visto trentaquattro puntate di una serie tv che in totale ha trentaquattro puntate. Ho iniziato un libro molto bello di Wolfram Eilenberger, ma leggo con estrema lentezza. Credo di avere battuto il mio record di ore di sonno dormite al giorno. Mi sento inutile. Passo dal letto al divano come il mio gatto, con l’unica differenza che lui non ha idea di cosa siano i sensi di colpa.
Quando capito davanti allo specchio mi spavento. Vedo una costellazione di brufoli dipinta su un ovale più bianco del muro, ma è la mia faccia quella. Ho voglia di danzare, ma poi il fiatone prende il sopravvento.

Sorpresa, ho il covid! In questo momento tra le persone che conosco ce lo hanno quasi tutti, ma al contrario di due anni fa, quando questo inferno è iniziato, adesso mi sento sola e basta, non sola in compagnia. Per fortuna la casa è grande, la mia coinquilina ha gentilmente deciso di lasciarmela in modo tale che non dovessi stare chiusa in una sola stanza per tutto questo tempo. Sono fortunata. C’è un terrazzo e dalla finestra si vedono i gabbiani che volano. I tramonti da qui sono pazzeschi. Io però ho un velo davanti agli occhi: mi sento un automa. Non so più se sono qui veramente, se sono questo corpo. Diciamo che sono in risparmio energetico come alcune prede che si difendono dagli animali che gli fanno mobbing. Solo che quell’altro animale sono io stessa.

C’è una parte di me sdraiata, irremovibile, piantata e un’altra disturbatrice, irriverente, quasi cattiva che non fa altro che ripetere devi fare questo e quell’altro. E più lo ripete più l’altra mette radici, ragnatele e si ricopre di polvere. Niente di nuovo. È solo un modo perverso di relazionarsi a sé stessi che a volte può diventare un loop parecchio strozzante. Mi sveglio tutte le mattine pensando, perché mai finisco per odiare tutto quello che faccio? Non appena gli altri iniziano ad apprezzarlo poi, diventa ancora più facile avercela a morte con sé stessi. Perdo tempo. Per me il tempo è molto strano. Va velocissimo lentamente. Credo di percepirlo come le persone anziane, però con un sottofondo di ansia per l’età che avanza, ma verso i trent’anni (qui chi ha superato i trenta si farà una risata se tutto va bene).
Qualche giorno fa una mia amica ha iniziato ad aprirsi con me per telefono. Mi parlava della sua sofferenza.
A un certo punto si è fermata e ha detto: c’è la guerra nel mondo e io mi lamento di queste stronzate che non interessano a nessuno! Ecco, mai farlo. Pessima mossa tirarsi addosso le responsabilità del mondo intero e usarle per sminuire i propri problemi. Ma come unici esseri pensanti o razionali che siano, gli esseri umani dovevano essere per forza così pesanti da indossare tutti i mali di questa terra come ad una sfilata di moda? Mi ricordo due anni fa quando a sfilare erano soltanto i neo-sportivi, i corridori con le loro tutine nuove di zecca ordinate su internet per l’occasione.

Ieri, due anni fa, scrivevo la prima puntata del diario dell’apocalisse. Non avrei mai immaginato di arrivare fin qui passando anche per uno spettacolo che ancora non ha mai ufficialmente visto la luce. Due anni fa vivevo il sogno di una storia d’amore in una casa un po’ distrutta, ma ricca di sentimenti. Il mio ragazzo mi portava il caffè a letto e spesso ci metteva su il latte di soja con la schiuma, poi andava a scrivere la tesi e io a fare la sbarra di danza classica attaccata alla libreria. Due anni fa il mondo si immobilizzava, ma si accendeva l’inizio di quello che sembrava il rischiaramento delle coscienze; a lockdown finito si sperava in un mondo più pulito e solidale. Due anni fa si faceva la guerra soltanto per trovare la farina al supermercato, la carta igienica o pacchi di pasta che non fossero penne lisce. Oggi ci sono altre guerre, il mondo è più impazzito e inquinato e folle di prima e la delusione è gigantesca. Sembra che quello del 13 marzo 2020 sia stato solo l’inizio e quindi non resta che alzare il volume della musica e continuare a scrivere.

 

RISALIAMO LA CORRENTE. ECCO QUI IL DIARIO DEL MARZO 2020, PRIMO MESE DEL LOCKDOWN (N.D.R):

13 marzo 2020
Non è solo il rischio di stare in casa in pigiama tutto il giorno, ma anche di dimenticare di vestirsi quando si esce. Poiché accomunati tutti dalla stessa condizione, mi dimentico che voi, umani di là fuori, non siete miei parenti e che andare al supermercato non è come andare in cucina e aprire il frigorifero.

14 marzo 2020
Si può andare a correre fuori da soli giusto?! Senza autocertificazioni che dichiarano che tu stia palesemente sudando e ascoltando musica. Perché se ascolti musica e sudi, si vede, no?

15 marzo 2020
Caro Diario, mai vista Palermo così piena di sportivi. Ci stiamo preparando alle Olimpiadi post apocalittiche? O alla guerra dei mondi? O forse alla barzelletta più grande della storia? Ho visto gente, che non sa neanche cosa siano delle scarpe da ginnastica, correre con il cuscino del divano ancora attaccato alle chiappe. Forse ci sta facendo bene in fondo. Ci sta facendo bene.

16 marzo 2020
La palpebra cala sull’occhio come la serranda sulla finestra. L’aria di chiusura s’insinua lenta dagli spifferi che sono tanti, come i croccantini per i gatti che per la prima volta inizio a contare uno ad uno nel passaggio dal sacchetto alle ciotole. Al momento sono in crociera sul mare di piume che si chiama Piumone e collega la Sicilia settentrionale alla Cina. Il piumone è pieno di piumonde, ci nuotano i pesci piuma e ci navigano le navi cuscino. La crociera adesso si è fermata per ammirare il passaggio di uccellicotteri sospetti che ci volano sopra la testa. Un passeggero esperto, documentarista del National Geographic, ci informa che questa particolare specie prende il nome di “polizia”, in quanto zia di una certa politica.

19 marzo 2020
Caro diario, in quarantena si sospira parecchio. Che quando sospiro inspiro dal naso ed espiro dal naso. La bocca resta serrata come la città. In attesa di comandi. A volte i denti di sopra mordono il labbro di sotto, in cerca di un’idea.
Spesso la bocca mi serve anche per mangiare. Non cibo ma emozioni in forme varie. Ci sono quelle tonde come i biscotti e quelle tonde tendenti al quadrato come i pancakes che vengono fuori dalla padella storta, e poi ci sono quelle appuntite e croccanti come il cibo spazzatura che semina brufoli come le supernove nel firmamento. La mia faccia è diventata un cielo notturno tra le quattro mura di casa. Che poi chi è che ha quattro mura soltanto? Fossero quattro, vivrei in un loft a New York. Di certo non qui.
Il mio vero interlocutore in questa faccenda è il Mio gatto. Dico Mio perché miagola ma non perché è mio; lui appartiene a sé stesso più di quanto non lo faccia io, di appartenermi. Che non è tenersi a parte della vita.
Con le fusa estirpa il peggiore dei virus, la rabbia, e mi ricorda che lui in lockdown ci sta da tanti anni.
Poi mi svela un segreto: dice che per essere liberi bisogna scavare una galleria dentro di sé e poi lasciarsi passare.

21 marzo 2020
Caro diario dell’apocalisse e della quarantena, giorno numero chi se lo ricorda più. Uno di quei giorni in cui penso, perché questo vuol dire questo e quello si dice in quell’altro modo?
Che so, “Asciugamano” sostantivo singolare maschile; perché si chiama così nonostante serva ad asciugare tutte e due le mani, che poi sono anche femmine?
Oppure “Apocalisse”, dal greco “apokálypsis” (apò = particella negativa e Kalyptein, coprire) da cui, rivelazione. Me lo ha detto Dio Google. Il greco non me lo ricordo più e devo ammettere che mi manca parecchio. Anche se ci sarei potuta arrivare…la Dea Calipso che nascose Ulisse… ma quella è un’altra storia.
Rivelazione è vedere per la prima volta “Stalker” di Andrej Tarkovskij e avere ancora fame.
«La Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero» (1) .

22 marzo 2020
Caro diario, oggi ho deciso di rileggere, dopo circa otto anni, il Simposio di nonno Platone. La faccio breve. A un certo punto Pausania dice a Fedro che le Afroditi sono due e poiché non esiste Afrodite senza Eros, anche Eros è doppio. Chi sono queste due Afroditi, dunque? Una è figlia di Urano e la chiamano Urania. L’altra viene da Zeus e Dione, il suo nome è Pandemia.
Bene, ora se cercavate qualcuno con cui prendervela, sapete a quale porta dovete bussare.
È consigliabile l’utilizzo dei parafulmini.
Chiedo umilmente scusa a nonno Platone e agli dèi per la mia hỳbris ma non potevo fare a meno di ridere per questa buffa coincidenza.
P. S. In questo caso Pandemia non ha il significato di epidemia mondiale ma significa “popolana”, “volgare”.  A scanso di equivoci.

23 marzo 2020
Oggi mi sento spenta e allagata di sapone televisivo fuoriuscito dal tubo di scarico delle responsabilità che a volte non mi voglio prendere. La metafora si riferisce anche al fatto che se entraste nella “mia” cucina adesso, avreste bisogno di una gondola perché si è rotta la lavatrice e
c’è un grande lago. Vi proporrei uno schiuma party virtuale ma purtroppo senza Peter Sellers.
E senza elefante. Ho letto un articolo di giornale che diceva che a Venezia l’acqua è così limpida che sono arrivati i delfini. Forse rinchiusi siamo più bravi? Siamo noi il problema del mondo?
Questa domanda chiama a sé tanto senso di colpa.
Per ora stiamo dentro, ma senza sprofondare. Affacciamoci fuori, ma senza alienarci e giudicare. Questo è il momento della soglia. Sospesi ma attenti al punto in cui abbiamo imboccato la strada sbagliata, scoprendo come poter sterzare domani questa linea di tempo escatologico in cui ci siamo intrappolati da soli e da secoli.

26 marzo 2020
Non ho scritto, è vero. Non sempre è il momento di dire. A volte il pieno di queste giornate vuote coopera con la necessità di tacere e poi raccogliere un’epifania, una parola chiave, una domanda; o anche “soltanto” dei crocevia di forze: una luce, un rumore, la temperatura del pavimento, il suono del vento e della pioggia che sbatte forte sulla finestra.
Ringrazio dunque il vuoto (che nemmeno in fisica può essere perfetto, poiché dicono esserci sempre un certo numero di molecole per metro cubo anche nello spazio intergalattico) di parlarmi. Ringrazio il silenzio.
Dio Google dice che per la parola “silenzio” si può risalire ad una radice indoeuropea: si- = legare.
“Nell’idea del silenzio è insita l’idea del legare, dell’unire, cioè l’idea di creare un canale di comunicazione privilegiato” (2) In primis con sé stessi. Così ho pensato che forse è il caso di smettere di fare casino. Qui davanti, dentro e attorno a noi fortunati che possiamo passare la quarantena salvi da violenze domestiche, con un tetto sopra la testa e del cibo nelle nostre dispense, c’è già moltissimo. Un elogio va sicuramente all’altro Dio, all’internet, ma lungi da me sostituirlo agli abbracci dei mie più cari amici e parenti e maestri.

29 marzo 2020
Ci sono altre parole che mi suggeriscono i sogni delle ultime notti di quarantena: “tradimento” e “tradizione”; dal latino “tradere”, consegnare al nemico e consegnare ai posteri. Sono due parole che tornano, erano alla base del mio progetto coreografico “Unproductive thinking” con Aurora, che spero potrà continuare prima o poi. Allora così, giocando, pensavo, quali abitudini e quali tradizioni siamo disposti a tradire per non “tornare come prima ” alla fine di queste settimane (o mesi) di “resto a casa”? E cosa vogliamo consegnare ai posteri? E a cosa NON riusciamo assolutamente a rinunciare del nostro nemico? E perché? Dico il nemico che ci teniamo stretto, quel distruttore di vita fuori e dentro di noi; quel noioso parassita negativo che cerca il successo più della felicità, che cerca la comodità più della verità. Quella smania di controllo che non accetta l’incertezza. Ma il nemico, concretamente, sono anche i droni, le fabbriche d’armi, i tagli alla sanità, l’Europa che non ci aiuta e l’idea in generale che l’essere umano sia al di sopra di tutti gli altri viventi sta alla base di tutti i nemici. In realtà siamo solo una specie molto giovane con il delirio di onnipotenza. Ma siamo anche stupendi e affascinanti. Semplicemente, non siamo gli unici. Quando lo capiremo?

Allora, quali nuove regole vogliamo affermare quando l’hashtag diventerà “ioescodacasa”?

 

 

1 Scolpire il Tempo, A. Tarkovskij.

2 silènzio s. m. [dal lat. silentium, der. di silens -entis, part. pres. di silēre «tacere, non fare rumore»]. – 1. a. Assenza di rumori, di suoni, voci e sim., come condizione che si verifica in un ambiente o caratterizza una determinata situazione: il s. della notte; nella vecchia casa abbandonata regnava un profondo s., un s. di morte, un s. di tomba; il s. fu rotto improvvisamente da un urlo; qui c’è un gran s., si può lavorare in pace; è possibile avere un po’ di s., in questa casa?; all’orror de’ notturni Silenzj si spandea lungo ne’ campi Di falangi un tumulto (Foscolo); sovrumani Silenzi, e profondissima quïete Io nel pensier mi fingo (Leopardi); Il divino del pian s. verde (Carducci). Nella circolazione urbana, zona del s., zona di luoghi abitati, di solito in prossimità di ospedali, nella quale vige il divieto per i veicoli di fare uso di segnali acustici. b. Nel linguaggio milit. (e per estens. di collegi e altre comunità), prescrizione di non disturbare il riposo o la tranquillità parlando o facendo rumore; il periodo di tempo per cui si deve osservare questa prescrizione e il segnale di tromba che ne segna l’inizio (mezz’ora dopo la ritirata serale dei soldati e, in estate, anche prima del riposo diurno delle truppe): durante il s. è proibito parlare, anche sottovoce; sono stati puniti perché chiacchieravano dopo che era suonato il silenzio. In partic., s. fuori ordinanza, il segnale del silenzio suonato dal trombettiere, o da una fanfara di trombe, in determinate circostanze (truppe al campo, giorni di cerimonie solenni, ecc.), su un motivo melodico più ampio, complesso e ricco di variazioni, e più suggestivo. c. Nella tecnica delle trasmissioni, zona di silenzio, o zona d’ombra, per analogia con le onde luminose, la zona che non può essere raggiunta dai segnali radio emessi da un’antenna a causa di ostacoli di varia natura. 2. a. Il fatto di non parlare o di smettere di parlare (e, più in generale, di non gridare, cantare, suonare, fare rumore) per un certo periodo di tempo: stare, rimanere in silenzio; ascoltare in s. (e con riferimento a sensazioni, sentimenti e sim.: soffrire in s.; amare in s.; sopportare in s. un’ingiustizia); fare silenzio, tacere, smettere di parlare o di fare rumore (anche come avvertimento e comando: fate s.!, e assol.: silenzio!); ci fu un breve, un lungo s., un s. imbarazzante, glaciale; rompere il s., cominciare a parlare, o parlare per primo, dopo un periodo di silenzio; ridurre, costringere al s. un avversario, l’interlocutore, confutarne le argomentazioni, farlo desistere dal discutere, dal ribattere. Per estens., nel linguaggio milit., ridurre, costringere al s. un pezzo di artiglieria, una batteria, una mitragliatrice, un forte, colpirli in pieno, in modo da renderli inefficienti. Nella liturgia cattolica, s. sacro, uno dei modi con cui si esprime la partecipazione attiva dei fedeli alle celebrazioni liturgiche. In alcuni ordini religiosi, obbligo del s., la prescrizione di astenersi dal parlare e da ogni altra manifestazione sonora in determinate ore e periodi; dispensare dal s., esimere da tale obbligo, in circostanze e per motivi speciali. b. Per estens., il non dare notizia di sé, né per lettera né con altri mezzi di comunicazione: scusa il mio s.; il mio lungo s. ti avrà stupito; il suo inspiegabile s. ci preoccupa. c. fig. Il non parlare o scrivere di un fatto, il non darne notizia, l’evitarne ogni diffusione e pubblicità: vi raccomando il più assoluto s. in merito a quanto vi ho detto; i parenti del sequestrato hanno chiesto il s. della stampa (o, ellitticam., il silenzio stampa, locuzione usuale per indicare l’astensione dal pubblicare o trasmettere notizie e interventi su determinati fatti o argomenti, imposta ai giornali e alla radio-televisione su richiesta dell’autorità giudiziaria, e anche, per comune accordo dei partiti, alla vigilia delle elezioni politiche o amministrative; per estens., rifiuto di rilasciare dichiarazioni o di concedere interviste da parte di personaggi dello sport, dello spettacolo, della cronaca ecc.); passare sotto silenzio, tacere di qualche cosa, non farla sapere, tenerla nascosta: è un fatto molto grave, che non si può passare sotto silenzio. Dimenticanza, oblio: avvolgere un avvenimento nel s. (per congiura del s., v. congiura); cadere nel s., essere dimenticato, non suscitare interesse; vivere nel s., senza far parlare di sé. [www.treccani.it]