Marco Causi
Ci volevano due donne tedesche, entrambe conservatrici, per sbloccare l’immobilismo dell’Unione Europea e provare a farle fare un salto in avanti prendendo come terreno di azione la risposta di politica economica alla crisi indotta dalla pandemia.
Angela Merkel ha dimostrato il suo spessore politico riconoscendo gli errori compiuti nella gestione della Grande Recessione, a partire dalla questione greca fino al vertice franco-tedesco di Deauville e all’incendio che ha accelerato sui debiti sovrani europei e su quello italiano in particolare. L’Europa ha dovuto aspettare quasi quattro anni, e cioè l’arrivo a Francoforte di Mario Draghi, per iniziare a contrastare la crisi nata negli Stati Uniti nel 2008, subendo la conseguenza di una seconda recessione (double dip) fra 2011 e 2013 che non si è manifestata in nessun’altra parte del mondo.
Ursula von der Leyen è una presidente della Commissione Europea con spazi di manovra molto ampi, sconosciuti ai suoi predecessori, poiché rappresenta la Germania. Soltanto una presidenza tedesca poteva infrangere il veto dei paesi rigoristi-protestanti del nord, fra cui la stessa Repubblica federale, a costruire un embrione di politica fiscale comune superando uno stallo cominciato nel lontano 1993 quando Delors predispose un Libro bianco che fu attuato solo parzialmente.
Quando si discute del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è bene tenere a mente questo scenario e le sue implicazioni che senza enfasi possono definirsi storiche perché il PNRR nasce da alcuni programmi europei a forte carica innovativa, destinati a cambiare nel lungo termine il funzionamento dell’Unione. Il più importante è NextGenerationEU (NGEU) ma hanno rilevanza anche il nuovo meccanismo europeo di compartecipazione al sostegno del reddito delle persone disoccupate (SURE), la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), il potenziamento di mezzi e strumenti della Banca Europea degli Investimenti (BEI), l’intervento immediato di breve periodo fornito da REACT, nonché il fatto che l’arsenale predisposto per contrastare la crisi economica del 2020 con strumenti di politica fiscale (che si accostano, finalmente, a quelli della politica monetaria proattiva messa in campo fin dal 2012) non abbia ridotto le dotazioni delle tradizionali politiche comunitarie di sostegno ai territori in ritardo di sviluppo: i fondi strutturali anzi hanno ottenuto un aumento degli stanziamenti nel ciclo di bilancio 2021-2027.
Sotto il profilo macroeconomico e politico-economico le novità sono significative: si tratta di strumenti integrati nel bilancio della UE, non di fondi temporanei extra-bilancio; vengono in parte finanziati con emissione di titoli di debito europeo, quelli che nella discussione pubblica sono conosciuti come eurobond; per un’altra quota saranno finanziati, quando la pandemia e le sue conseguenze verranno superate, da imposte di rango europeo; le risorse sono assegnate in relazione ai fabbisogni collegati all’emergenza pandemica e non, come finora era regola nel bilancio UE, in base a criteri di rigida ripartizione in funzione di parametri come la quantità di popolazione o il volume del PIL. È questo il motivo che ha portato l’Italia a essere, insieme alla Spagna, la principale beneficiaria della nuova spesa pubblica europea. Anche l’impianto qualitativo della programmazione contiene novità e indirizzi politici interessanti a partire dalla priorità green fino, per fare un esempio settoriale, all’obiettivo degli interventi sulla cultura, finalizzati all’aumento della partecipazione culturale e non soltanto al sostegno del turismo.
Dall’Europa arrivano così all’Italia 191,5 miliardi di euro di origine NGEU a cui si aggiungono 14 di REACT, 27,5 di SURE, 31,5 derivanti dal piano complementare predisposto dal governo italiano e, dulcis in fundo, 83 miliardi di fondi strutturali. Al totale di 347,5 miliardi andrebbero aggiunti gli interventi della BEI, che non è possibile quantificare ex ante, e potrebbero essere sommati gli eventuali apporti del MES a cui però il nostro paese ha rinunciato. Tenendo conto che la spesa SURE e REACT si concentra nel 2020-2021, che le risorse NGEU vanno usate entro il 2025 e quelle dei fondi strutturali e del piano complementare entro il 2027, l’impulso fiscale annuale a sostegno dell’economia italiana proveniente dal PNRR è il 2,4 per cento del PIL fra 2020 e 2025 e l’1,7 nei due anni successivi.
È chiaro che l’impatto di questo impulso non dipende solo dalla sua entità ma anche, anzi soprattutto, dalla qualità e dall’efficacia dei programmi e progetti che saranno realizzati. Non va sottovalutato tuttavia il ruolo macroeconomico dell’operazione su due versanti. Primo, l’esistenza di una politica di solidarietà europea, da parte della BCE e adesso anche da parte di Bruxelles, fa argine a tensioni sul debito pubblico italiano, cresciuto fino al 160 per cento del PIL. Secondo, nel biennio 2020-21 il deficit pubblico italiano è schizzato sopra il 10 per cento del PIL ma dovrà rientrare nei prossimi anni: nei documenti del governo se ne programma la discesa al 4 per cento nel 2024. La finanza aggiuntiva proveniente dall’Europa potrà aiutare nel medio termine a rendere sostenibile l’assorbimento graduale dell’eccesso di disavanzo accumulato, inevitabilmente e giustamente, durante la crisi.
Le questioni politiche sollevate dall’impiego di queste ingenti risorse sono tante, tutte sensibili e complicate. Basti pensare che è proprio il PNRR, la sua predisposizione e la sua attuazione, uno dei fattori che hanno portato alla caduta del precedente governo e dato origine al governo Draghi. Mi concentro solo su due punti: la governance e il Mezzogiorno.
Nelle scelte di governance Draghi ha con tutta evidenza preferito un’opzione centralista. Non è difficile capirne la motivazione: l’Italia dopo avere ottenuto una svolta delle politiche UE ed essendone la principale beneficiaria non può permettersi di fare brutta figura. Non è soltanto un punto di dignità nazionale, è un punto legato alla sopravvivenza delle nuove politiche, poiché se l’Italia non riuscisse a spendere le risorse ottenute oppure se le spendesse male ciò darebbe ragione alle constituencies nord-europee contrarie a una maggiore integrazione sul versante delle politiche fiscali e di bilancio pubblico. La centralizzazione tuttavia comporta rischi, soprattutto nella parte del piano dedicata agli investimenti pubblici, che assorbe una quota del 62 per cento dell’intero PNRR. Ne vedo due.
Il primo è che da molti decenni gli investimenti pubblici in Italia sono competenza prevalente degli enti locali, i cui impegni su questa voce ammontano a seconda degli anni al 60-65 per cento della spesa complessiva delle pubbliche amministrazioni. Al di là del giudizio che ciascuno/a può dare sull’efficienza degli enti locali e dell’eventuale desiderio di ipristinare un più forte centralismo, sta di fatto che le amministrazioni centrali ministeriali non hanno al loro interno uffici specializzati e competenze tecnico-professionali adeguate e sufficienti, che invece ci sono nelle amministrazioni locali. E non si tratta di risorse umane e organizzative che possano essere costruite in pochi mesi.
Da qui nasce il secondo rischio, che la realizzazione degli investimenti venga integralmente affidata a concessionari che avranno la facoltà di operare, grazie allo strumento dei commissari straordinari istituiti per accelerare l’attuazione del piano, al di fuori delle ordinarie regole di concorrenza (gare pubbliche d’appalto).
Le intenzioni di Draghi sono comprensibili e cristalline, lungi da me una critica dal vago e aprioristico sapore giustizialista. Tuttavia, l’esperienza storica consiglia di fare molta, ma davvero molta, attenzione. Sarebbe necessario dotarsi di apparati tecnici che abbiano la competenza e l’indipendenza necessarie al monitoraggio delle procedure e dei cantieri, un tema che non può essere risolto assumendo alcune migliaia di giovani architetti, ingegneri e avvocati, né può essere delegato all’ANAC. Una più forte partecipazione al processo di realizzazione da parte delle amministrazioni locali renderebbe disponibili uffici tecnici sperimentati che i ministeri non hanno.
Si potrebbe anche pensare all’affiancamento da parte di soggetti d’impresa pubblici che, invece di diventare concessionari, agiscano da agenzia tecnica per conto del governo. Penso per esempio, dopo l’ottimo lavoro che ha svolto a Genova, a Fincantieri o a qualche sua società partecipata di ingegneria.
Per quanto riguarda il Mezzogiorno, sono state sollevate critiche al fatto che il PNRR destini a questa area del paese «soltanto» il 38 per cento della spesa programmata per investimenti pubblici. È ben noto che le politiche di sviluppo territoriale e coesione sociale sono dotate di riserve a vantaggio delle aree in ritardo di sviluppo. Per esempio, i piani di investimento costruiti nel ciclo 2014-2020 intorno ai fondi strutturali UE hanno dedicato il 78 per cento delle disponibilità alle regioni meridionali. Facendo un semplice conto, se questa percentuale si confermasse nel ciclo 2021-2027 le risorse che questa fonte può generare per investimenti pubblici nel Sud sarebbero di 65 miliardi, a cui aggiungere il 38 per cento degli investimenti previsti dal PNRR. Il totale raggiunge 120 miliardi: una dotazione equivalente annualmente al 4,4 per cento del PIL del Mezzogiorno per sette anni, con una dimensione dell’impulso fiscale quasi doppia rispetto al valore nazionale. E, inoltre, ben superiore a quella che le politiche di sviluppo regionale a vantaggio del Mezzogiorno hanno avuto negli ultimi decenni.
Non vedo motivi per proporre un aumento di questa dotazione. Il PNRR non è figlio di una politica di sviluppo territoriale, serve a dare sostegno all’intero paese dopo la recessione del 2020 causata dalla pandemia. Serve a modernizzare l’apparato produttivo e a sostenere in varie forme il capitale umano. Non a caso il 26 per cento delle sue risorse è destinato a trasferimenti verso famiglie e imprese, quindi a interventi di politiche del lavoro e a incentivi per innovazione e ricerca. Sarebbe ben strano porre vincoli a questi interventi nelle aree più produttive del paese, dove molti lavoratori e lavoratrici hanno necessità di aiuto, così come molte imprese. A ben vedere la crisi economica legata alla pandemia ha colpito con modalità ugualmente drammatiche tutto il paese e la premialità a favore del Mezzogiorno è garantita dalla sovrapposizione fra PNRR e nuovo ciclo 2021-2027 delle politiche di sviluppo e coesione sostenute dai fondi strutturali europei.
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