inItalia Magazine
di Margherita Celestino
Sono partite tutte e io sono rimasta ferma. Il corpo gazzella si è trasformato in piombo. Le ho viste allontanarsi insieme e diventare puntini. Voci nella mia testa mi hanno gridato che non potevo farcela stavolta, mi hanno detto che era troppo per me. Quel giorno ho odiato la corsa. Qualcosa si è spezzato.
La pista è fatta di spine. Non ce la posso fare, le scarpe di gomma si bucano, il mio cuore frana. Mamma e papà applaudono dalla tribuna. Sono sola. Vedo il mio nome scritto dei grandi cartelli. Una bambina bionda in tribuna è vestita come me, ha pure il numero 5 stampato sulla maglia. Non piangere, non è colpa mia, sono le gambe che non reggono. Non sono cattiva, le ho abbandonate, le ho lasciate andare avanti. Ma di che ti spaventi? Il mondo vuole sempre grandi cose, ma io sono piccola. Mi viene da vomitare, voglio scappare. Non riesco a correre nemmeno per andare via. Lascio la pista come un’ubriaca, dondolo da una parte all’altra, non trovo l’uscita. Non mi vergogno. Devo togliermi da qui. Correte, gazzelle, ce la fate anche senza di me. Mi odio. Ma perché? Trombette e fischi mi rimbombano dentro. Non importa. Voglio andare a casa. Quale casa? Fa’ che non ti veda la Coach. Ti prego, non volevi deluderla, dai, vai via! Ecco se n’è andata. Ho bisogno d’acqua, ma non ho sete. Che cosa sento? Niente. Un pugno alla bocca dello stomaco. Finalmente hai fallito a meraviglia. Brava. Dovresti essere fiera. Che sollievo. Ce l’hai fatta, come ti senti? Che sollievo la delusione. Sono nata per correre! Io sono l’Atletica. Sono la più forte, la speranza di tutti. Io sono un fallimento. Io ce l’ho fatta! Posso tornare ad essere Flora e basta. Sono Flora, non la Numero Uno! Le gambe si stanno alleggerendo per correre a casa. Mi formicola tutto. Vedo nero. Vedo una panchina. Una signora coi capelli bianchi e un carrello della spesa si ferma per chiedermi se va tutto bene: “tesoro, ti vedo pallida” ha esordito così. “Tesoro” … devo sembrare proprio piccola. Ho risposto che non ho bisogno di nulla e che sono solo stanca. Forse mi faccio un pisolino, qui non mi troverà nessuno. Forse sì. Mi metto il gomito destro sotto la testa. Chiudo gli occhi. Mi sento su una zattera col mare mosso. Una volta a 13 anni ho scritto un tema su un cane che piangeva da solo in mezzo al mare, stava su un tronco di legno in balia delle onde. Era triste perché era stato abbandonato e aveva paura dell’acqua, ma non abbaiava mai, stava fermo in bilico, ma immobile, come se avesse accettato la sua condizione di solitudine per sempre. Più in là avrei scoperto che lo stesso mare era fatto delle sue lacrime. Mi sveglio di soprassalto. Due infermieri della guardia medica sono ricurvi su di me. Dietro di loro vedo appannata la figura di mia madre. Non riesco a mettere a fuoco.
– Flora, mi senti?
– Sì.
– Cos’hai? Andavi così bene, che è successo?
– Signora, per adesso la lasci tranquilla.
– Potete spiegarmi?!
– Niente di grave, ma meglio andare al pronto-soccorso.
– Scusate, io sto bene. Non è successo niente. Posso andare a casa? Dov’è papà?
– Flora, non ti alzare di botto, appoggiati a noi.
– È andato a cercarti dall’altra parte dello stadio.
– Non ho bisogno di aiuto, posso farcela, vado a piedi.
– Flora, torna subito qui!
– Dì a papà che va tutto bene, mi sono ripresa, ci vediamo a casa!
Cammina in modo sostenuto. Non voltarti. Dai l’impressione di essere tornata in te. Non è successo niente, sei solo fuggita dalla preselezione degli europei. Brava. Un passo dopo un altro, due linee parallele. Tallone, quinto metatarso, primo dito. Così, in sequenza, come quando hai imparato che per andare veloci bisogna prima saper andare piano, che uno scatto è il risultato di una molla che prima tira in direzione contraria. Si sono finalmente accorti di me. Li ho fatti spaventare. Mi vogliono bene. Forse per un po’ di tempo mi lasceranno in pace, non mi chiederanno di fare altre gare, ma piuttosto “come stai?” e se voglio un po’ di torta al cioccolato. Perché non mi sono fatta aiutare? Forse voglio prima capirmi da sola. Ho bisogno d’aria. Di non dare spiegazioni. Di trovare uno scorcio di cielo, un profumo, una rotta nuova. Vado sempre più veloce. Inizio a mettere il mondo a fuoco. Vedo un piccione che si abbevera ad una fontanella, due ragazze che si baciano alla fermata dell’autobus, una nuvola a forma di muffin, una vetrina di un negozio di articoli sportivi che mi fa venire il magone. Non guardare. Prima mi piaceva correre. Mi sentivo libera. Ora vorrei fare tutto tranne che questo e vorrei stare per sempre a letto per scoprire il mondo con gli occhi chiusi. C’è tanta bellezza al di qua delle palpebre. I mostri li sconfiggeremo insieme: io e Flora. Quella nuova, che sa dove non vuole andare. Parlo di me in terza persona. Magari sto impazzendo. Voglio soltanto dimenticarmi chi sono per poterlo scoprire. Una vita incatenata alle scarpe da ginnastica non fa per me. Tu ami correre! Anche l’amore si rompe se è fatto di cristallo. Faccio la fotosintesi coi capelli. Il sole è alto e ho bisogno di nutrimento. Attraverso la strada, cerco un modo per tornare a casa senza tornare a casa, voglio allungare il percorso il più possibile. Voglio fare un bagno nel fiume. Qui non c’è il fiume. Voglio sdraiarmi e guardare gli alberi da sotto. Voglio cose che non posso avere. Sono esausta. Sono piena di energia! Corri, Flora! Quella bambina bionda tifava per te o per il numero cinque? Io sono il numero cinque. Sono la tuta da running. Sono le trecce coi codini gialli. Sono le gambe lunghe, i menischi saldi, la linea d’arrivo. Sono lo sparo iniziale. Sono anche la mia squadra, gli errori, le medaglie. Sono non importa cosa purché gli altri siano contenti. I punti di una gara non esistono. Sono convenzioni sociali che non hanno niente a che vedere con le cose reali. Abbiamo bisogno dei simboli per le vittorie, perché a parole non basta mai nulla e nemmeno i segni della gomma sulla pista servono a capire perché lo facciamo, forse per lasciare delle tracce che si trasformano in emozioni se uno le riguarda dopo tanto tempo. È questo che interessa ai morti, a me no. Io sono viva e non conterò mai nulla perché voglio soltanto essere felice sulla terra.
Quel giorno sono tornata a casa dopo aver camminato per sei ore senza fermarmi mai. Avevo paura che se mi fossi riposata anche solo per un attimo, non mi sarei più rialzata. Non avrei più visto né nuvole, né baci, né uccelli, né negozi o la mia immagine riflessa sulle vetrine. Avevo paura di smettere di esistere nello stesso momento in cui avrei smesso di correre e poi di camminare. Il mese successivo è stato buio. Sono stata a letto, non ho mangiato per giorni, poi mia madre veniva ad imboccarmi con la minestra. Non volevo mai accendere la luce, avrei potuto accorgermi di quello che mi stava succedendo e svegliarmi dall’incubo, ma avrebbe sicuramente portato ad un incubo peggiore. Poi sei arrivato tu. Hai bussato alla porta della mia stanza e mi hai detto: “Se hai deciso di sparire, devi nasconderti meglio”. Avevi un giornale sotto il braccio, con la mano libera hai acceso l’interruttore e io non ho visto più niente. “Il mondo va a fuoco, stare chiusi in casa e bagnarsi il più possibile”. Mi hai letto il titolo della prima pagina. “C’è posto qui per un cugino in fuga dalle fiamme dell’inferno?”. Ti ho fatto spazio nel mio letto, strabuzzando gli occhi. “Se potessi diventare un animale, quale animale vorresti essere?”, mi hai chiesto. “Una tartaruga”. Non lo so perché, ti ho risposto così e basta, “E tu?”; mi hai risposto che volevi essere un elefante perché sono buoni, hanno il senso del gruppo e piangono la morte dei loro amici, ma anche perché con la proboscide possono farsi la doccia e quindi sopravvivere al caldo di quei giorni. Nessun elefante lascia mai indietro un suo simile, così faccio io oggi con te. Tu mi hai tirata fuori da quella stanza, mi hai detto che smettere di fare le gare non significava smettere di correre e che avrei anche potuto correre come una tartaruga se avessi voluto. Da quando eri piccolo ho imparato da te la pazienza, che ogni tanto si può stare comodi nel mondo, non è per forza un posto orribile; che c’è spazio per gente con i calzini diversi, le macchie sulla camicia e la voglia di ridere. Mi ricordo un giorno in cui siamo andati al mare e tu mi hai detto: “Costruiamo una barca e una scala! Poi remiamo fino a sotto la luna e, appena arriviamo sotto di lei, ci saliamo sopra”. Abbiamo iniziato a prendere pezzi di canne, rami e foglie e poi abbiamo formato una barchetta. “Niente resta in piedi se non lo leghiamo”, hai detto tu e io ti ho risposto che sarei andata a comprare lo spago se non fosse che stavi già intrecciando altri rami più morbidi per risolvere il problema. Ti ho guardato felice e tu mi hai detto che se volevo arrivare da qualche parte nella vita, non era importante se partivo da zero, l’importante era andare. Eri un folle, di quei folli che sono più in contatto con la poesia. Se sono ancora qui adesso a ricordare a tutti quanto fossi importante, è solo grazie a te. Non ci sono parole per dirti quanto mi manchi. Hai lasciato una traccia senza per questo essere un eroe. Al più dolce postino di tutti i tempi, che riposi in pace, come la pace che ha messo in ogni cosa mentre era in vita.
Scendo le scale dell’altare e ritorno a sedermi sulle panche di legno vicina a mia madre, sono sgorgate diverse lacrime mentre parlavo, ma ho continuato a sorridere. Non è giusto che questo funerale sia stato fatto in chiesa. Sono gli Dèi greci a volere i morti giovani. C’è spazio per un postino nell’Olimpo? Ma ha davvero importanza che professione abbiamo fatto per definire dove dobbiamo andare dopo questa vita? Ma andremo davvero in qualche posto? Com’è un nessun-luogo? Non me lo riesco a immaginare. Ma se non lo posso immaginare significa che non esiste? Esco dalla chiesa prima della fine della messa. A Salvatore non importava del suo funerale nemmeno quando era vivo. Consegneranno il suo corpo alla scienza, era l’unica cosa che voleva. Lui era mio cugino ed anche mio fratello, il mio Coach della corsa lenta. La chiamavamo così, ma era una corsa naturale, fatta per il puro piacere di correre. Mi siedo sul gradino fuori della chiesa e mi cambio le scarpe. Salvatore, questa è per te: ottimo scatto alla partenza. Da quando Mi sono rialzata e sono uscita da quella stanza, ho deciso di non fare mai più cose che non mi piacciono; ho deciso di vivere e di andare a stare in una città vicina alla mia che ha un fiume in cui si può fare il bagno. Venticinque chilometri a partire da ora. C’è tanta strada ancora da percorrere.
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