Liberazione. Mentre scrivo, è ormai trascorsa una settimana dalla festa del 25 aprile. Per giorni ho cercato di formulare un pensiero, metterlo per iscritto, trovare – insomma – le parole giuste per esprime ciò che, oggi, significa (ancora) liberazione. Non è stato semplice. Chi come me ha fatto della scrittura una professione – o almeno ci prova – sa quanto le parole siano importanti. Quanto sia fondamentale scegliere le parole da dire o – per parafrasare Alda Merini – quelle da non dire.
Qualche giorno fa, due sedicenti comici (o pseudo tali) hanno provato a spiegare in prima serata quanto la dittatura del politicamente corretto (ma esiste davvero, in Italia, il politicamente corretto?) stia ingabbiando la possibilità del dire, rivendicando in questo senso la libertà di usare alcune espressioni discriminatorie nei confronti di omosessuali e persone di colore. L’offesa, si sono giustificati i comici, non sta nella parola, ma nell’intenzione. Basta prenderla con ironia, insomma. Niente di più falso. Le parole, infatti, non sono – e non devono essere – slegate dalla realtà. Meglio: le parole contribuiscono a creare il mondo che ci circonda. Le parole non sono leggere o pesanti, le parole – semplicemente – sono. Chi si arroga il diritto di poter offendere un’altra persona, non sta rivendicando una libertà del dire: sta, piuttosto, affermando un potere, un privilegio.
Ripenso alle volte che, camminando per strada, mi sono sentita rivolgere apprezzamenti volgari mascherati da complimenti. Per meglio identificare questo fenomeno c’è voluto l’intervento di una parola: catcalling. Come se fino a quel momento la molestia verbale non avesse forma, consistenza. Non fosse reale. Le parole, dunque, sono le cose.
Accade poi che a un altro artista venga intimato di modificare il proprio discorso perché inappropriato rispetto all’evento che lo vedeva ospite. La colpa di quel dire consisteva nello schierarsi a favore di una legge (il ddl Zan) al momento osteggiata da una parte politica che non ritiene fondamentale garantire a tutti gli stessi diritti (quello di non essere pestati per strada senza che il proprio carnefice rimanga impunito). Ci sono altre priorità, pare.
Mi chiedo allora se non sia per questo che mi è diventato così difficile trovare le parole. Perché ogni giorno i diritti che fino a questo momento abbiamo conquistato proprio in virtù di quel 25 aprile sembrano sgretolarsi sotto i nostri piedi; perché le parole hanno perso la loro presa sul mondo e qualcuno dice che parlare di fascismo è anacronistico, che il femminismo è una moda, che il razzismo non esiste, così come non esistono l’omofobia e la transfobia.
Scrivere è difficile perché non è più – e non deve essere – solo un esercizio di stile: è impegno, è responsabilità, è riappropriazione di ciò che vorrebbero toglierci. Perché, in fondo, chi pensa di poter dire tutto, non si assume mai l’onere di dire veramente qualcosa.
Biografia di Simona Arillotta
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