Margherita Celestino
03.05.2022
“Ho sempre tentato.
Ho sempre fallito.
Non discutere
Prova ancora.
Non discutere.
Fallisci ancora.
Fallirò meglio”.
Samuel Beckett
Cammino a testa alta. Un passo dopo l’altro e un desiderio di rivincita.
Chi ti ha battuta? Io, il cuore. Ho vinto io. Ha vinto lui. Si è disarticolato. Mi ha detto “seguimi”. Poi si è nascosto. Non l’ho trovato. Ho creduto di averlo perso. Poi ho ricominciato a cercare i segnali del corpo dentro ai tubi nervosi. A volte i canali si interrompono, è la morte, la cui intermittenza frena il desiderio dal trasformarsi in azione. Ho ragione io. No, io. La pancia ha bisogno del pensiero per digerire le emozioni, le situazioni e anche gli altri. Il pensiero ha bisogno del cuore per aprire l’orizzonte. No, io. Tu? Chi?
Da piccola credevo di essere “tu”. Mia madre mi diceva frasi come “mentre io lavo i piatti, tu puoi disegnare” alle quali rispondevo “ma quando io finisci di lavare i piatti, tu può giocare con io?”. Seguivo la logica dell’identico. Identità è un singolare statico, che non si può declinare al plurale, se non portandosi sulle spalle quel peso immane dell’accento sulla a, che, come un’accetta, gli impone di restare da solo.
Identica a chi? Chi sei? Una domanda che esige una ed una sola risposta. Eppure noi, quando non siamo nessuno, siamo centomila e più. Noi chi? Umani? Non umani? Sovraumani? Animali? Ci sono giorni in cui mi sveglio gatto; altri lucertola che si nutre di sole; o camaleonte capace di integrarsi in ogni spazio, invisibile, compatto; altri ancora in cui sono con chiarezza questo e soltanto questo corpo e da lì dentro abito il confine tra me e l’altro.
L’identità, con elle apostrofo e accento, non esiste. Quando dico Io, intendo un discorso preciso, in costante movimento, articolato. Non c’è sosta. Non c’è tempo per definizioni e certezze. Mi accorgo di creare spazio e materia soltanto quando formulo domande: come faccio a sapere che sto vivendo? Come so che posso amare? O che sto danzando? Cosa vedo dietro le palpebre quando dico “bene”? perché la frammentazione fa così paura? A volte ci vogliono mesi di ghiaccio per potersi ritrovare all’improvviso disgelati grazie ad una storia raccontata da qualcun altro. Occhi negli occhi col diverso. Così imparo che la paura può trasformarsi in desiderio, la tristezza in creatività e il freddo allora può lasciare alle molecole la possibilità di rigenerarsi. Cambiano anche il lessico e la sintassi, il modo di raccontarsi diventa fluido: sento, uno ad uno, pezzi di me che ritornano a casa. È questa l’unicità che impara a dimenticare gelosie, invidie e apre i cancelli della fortezza.
Una. Contenitore di tutte le schegge, insieme di precisione e morbidezza. Ecco l’equilibrio, il piacere del rischio che si bagna in una nuova pratica di contatto.
Riprendo il mio zaino. Riprendo a scrivere. Mi accorgo che per danzare devo credere di scrivere e per scrivere devo stare nel corpo come se danzassi. Testa-bacino, opposti timoni di ogni decisione concreta. Il cuore, in mezzo, assume l’intenzione.
È un compito vitale quello di irradiare verso fuori, farsi canale di significati più grandi, lasciarsi attraversare e dimenticarsi finalmente di sé.
Esiste però anche un buio. Quello del mio tempo. Contemporaneo a chi? Quello dei margini. Di cosa? Si palesa quando parlo del parlare e danzo l’idea di danza che avevo nel passato. La perfezione. Il cristallo. L’idea fissa come un chiodo fa con la cornice. Al contrario la domanda muove, richiede fede. Camminare per me è come una religione, necessita che il cuore stia in una determinata postura, con la quale diventare umili generatori di poesia, parentele e meraviglia. Così mi permetto di naufragare, esplodere, tracciare il percorso, vedere il tutto dalla prospettiva di un corpo sorpreso:
una foglia trema. La colomba si posa sul davanzale della finestra. La luce si trasforma. L’ombra tocca le pareti della biblioteca. Il cielo si libera dalle nuvole. Passano le rondini. Un rampicante abbraccia l’albero. L’usignolo chiacchiera. Sento qualcuno dire “scusa”. Risate di latte. Denti di felino. Un cane abbaia. Contrasto. Cucitura. Contrasto. Cucitura. Contrasto… coltivo il reale. Non sprofondo. Non volo.
Cristallizzare è la morte, la danza non è una somma di posizioni nello spazio. Spero che le varie identità di cui tanto si parla vadano presto a farsi fottere. Bisogna avere più coraggio, c’è troppa paura di sbagliare, che è paura di sorprendersi. Anche in palcoscenico.
Un flusso di coscienza scritto molto bene!