Margherita Celestino
26.03.2022
Finché nuota sott’acqua qualunque pesce può parere sirena.
(Gesualdo Bufalino)
La musica mi ha salvata tante volte. Ascolto i French 79 con il desiderio di cadere e che ci sia sempre la terra sotto, pronta ad accogliermi e a rispingermi nel mondo. Anche camminare è cadere in continuazione. Non posso fare un passo e controllarne tutte le fasi. Metto il piede avanti e poi mi affido. O prima è il peso a protendersi in avanti? Accettare di cadere è l’unico modo per poter restare in piedi ed è questo il segreto del movimento. Dare un input è osservare cosa lo segue, ma restandoci dentro: è il momentum. Quali sono le parti che tengono e quelle che lasciano? Si può sempre tenere tutto sotto controllo? E il piacere dove sta? E se poi è tutto piacere, tutto dolore, tutto pensiero? Come comunicano le parti fra loro? Quante danze ci vogliono per diventare professionisti? E quante cadute per non avere più paura? Come risvegliare l’interesse quando ogni cosa si spegne e mi fa venire la nausea? Dov’è l’interruttore per riaccendere la vita dai blackout? Ormai non mi vergogno più di nulla in questo diario, ma mi dispiace parlare sempre di me stessa. Lo sguardo a volte indaga all’interno soltanto perché c’è “tutto questo interno” che chiede di venir fuori. Mi nascondo dentro la scorza. Prima o poi la buccia lascerà spazio al succo. Cosa vede l’occhio chiuso?
La pancia che respira come il perpetuarsi di un’onda che si infrange sulla riva e si ritira. Lo sfrigolio del pensiero che non si posa mai, ma poi incontra l’acqua e si fa il bagno. L’osso sacro che sprofonda verso la terra e la zona lombare che sorride, l’aria l’accarezza e lei si allunga. Qualcuno spinge le mie gambe da sotto. Mi sento leggera. Sono spinta nell’andare. Le scapole diventano ali e incontrano la coda dell’occhio.
Non voglio volare. Preferisco nuotare. Le mie coste fluttuanti sono branchie che mi portano in giro. A volte mi capita di essere umana, nel senso di animale e cioè alimentando la bolla di sapone in cui sono immersa, che non mi fa vedere oltre la mia cinesfera; altre nel senso più razionale e allora sì che si capisce di cosa parlo.
Ho letto da poco un libro di Jakob von Uexkull e mi fa piacere riportarne un pezzettino: «Tutti i soggetti animali, i più semplici come i più complessi, sono adattati al loro ambiente con la medesima perfezione.
All’animale semplice fa da contraltare un ambiente semplice, all’animale complesso un ambiente riccamente articolato» (1). Non commento. Lo vivo. Vivo quel confine. Lo faccio mettendo un passo dietro l’altro. Testa-bacino e in mezzo il rachide di spinosauro (2) . Sono la protagonista di un film in cui si viaggia sempre restando sul posto. Due zaini, due gambe. Giro in tondo. Mi perdo sulla mia stessa isola che conosco a memoria.
Oggi mentre stavo seduta sulla sabbia a guardare il mare ad un certo punto mi è passato per la mente un amico, ma lui non mi ha visto. Volevo salutarlo, ma l’ho lasciato andare. Sarebbe bello se funzionasse così.
Non c’è tempo per le strette di mano. Oggi è tutto liquido. Le facce che incontro, i corpi che attraverso.
Ogni tanto intercetto sguardi che vorrei approfondire, mi immergo e risalgo in superficie per riprendere aria. L’attenzione scivola e deve scivolare. Gli altri sono pesci che viaggiano in direzione contraria. Io sono al centro della strada e non mi vergogno ad ammettere che passo più ore nelle immagini che mi dà il mio corpo che nella società per come è costruita. Forse è perché ancora non sono una persona? Come ci vado là fuori? Con un bel vestito e gli occhi della nuca. Ho capito che la bellezza risiede tutta in quel sentimento di gratitudine dello stare al mondo, di essere adulta correndo via dalla “brava bambina”. È la storia di tutte e inizia dal corpo, per finire in una camminata fiera in giro per le strade del mondo. Che cos’è, se non questo, la postura? È nello scambio tra passi e percorsi che la mente può finalmente stabilire un tramite con l’ambiente. Dentro e fuori allora si scelgono a vicenda, riconoscendosi.
È l’Umwelt di cui parla Uexküll. Non percepiamo tutti allo stesso modo le categorie di tempo e spazio. Men che meno possiamo credere che facciamo riferimento agli stessi sistemi: «Uno spazio generico, ossia indipendente da qualunque subietto, non esiste: e quando noi ci aggrappiamo alla finzione di uno spazio unico involgente il mondo intero, lo facciamo soltanto perché, in tal modo, ci sembra più facile intenderci l’uno con l’altro» (3).
Da questo mi chiedo allora dove ci troviamo quando diciamo di esserci incontrati? Come si chiama quel posto al confine tra i corpi in cui la pelle si sfiora e sappiamo all’improvviso di non essere più da soli? Ma soprattutto smettiamo di guardare a noi stessi e basta? E quel momento in cui si toglie di mezzo l’ego e comincia la vita, quello in cui passa la nausea e inizia la danza, lui come si chiama?
Oggi sono un pesce e non mi sono mai sentita tanto umana come quando ho osservato da vicino gli altri pesci.
1 J.von Uexküll, ambienti umani e ambienti animali
2 È il più grande dinosauro predatore mai vissuto sulla Terra, oltre due metri più lungo del più grande esemplare
conosciuto di Tyrannosaurus rex. Un corpo da carnivoro, una enorme vela dorsale, collo da pellicano, testa da
coccodrillo, piedi da fenicottero e una coda a nastro, potente propulsore nell’acqua. (Museodistorianaturalemilano.it)
3 J.von Uexküll/G. Kriszat, I mondi invisibili
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