Stefania Savoia
Essere cresciuti in Sicilia, a Palermo, deve avere contribuito a quello che è il mio senso dello Stato. Lo considero un fatto normale, non sono una fanatica, tantomeno patriottica.
I fatti, quelli che legano la mia terra all’importanza della presenza delle istituzioni, al contributo di chi ha portato la legalità nei territori dileggiati dalla mafia è certamente una delle ragioni. Ho vissuto e ho partecipato di una storia fatta di persone che si sono sacrificate nella lotta alla mafia con un senso altissimo delle loro azioni, anche di quelle che ai più risultavano irrilevanti. Eroi involontari, guidati non solo da ideali ma dai principi realmente fondanti della democrazia e della pace.
Anche per questo, venti anni fa, a Genova tutto sembrava irreale. Come poteva essere vero che il sogno di un mondo che quei principi li portava a modello, fosse sapientemente e con estrema ferocia distrutto da chi aveva il dovere, altissimo e innegabile, non dico di sostenerci, ma almeno di proteggerci? Ancora oggi è qualcosa di difficile da accettare e i ricordi di quei giorni cozzano con quanto, ancora, conservo nel rispetto e nella considerazione, altissima, delle istituzioni. Stride la violenza cieca di chi ci sparava i lacrimogeni, di chi alzava i manganelli, di chi ci urlava offese insopportabili, con quello che ho sempre ritenuto il ruolo di chi tutela il nostro stato di diritto.
Stride con l’ultima e terribile notizia dei fatti di Santa Maria Capua Vetere. Anche in questo caso chi avrebbe dovuto gestire con i metodi della civiltà e della democrazia un fatto complesso come una rivolta nel carcere ha scelto di usare il mezzo della violenza. Non si tratta né allora né oggi di mero ordine pubblico, si tratta di un cambiamento che la politica non ha mai voluto fare, un processo che non è stato mai avviato su questi temi.
In merito ai fatti di Genova di venti anni fa, si discute sulle scelte politiche che furono gravissime e dalle conseguenze devastanti, ma che sono da considerarsi solo l’inizio della valanga di fango che travolse e coinvolse non solo i responsabili politici ma anche i singoli, che si macchiarono di modi e metodi fuori da ogni possibile giustificazione. Si disse che molti erano giovani, erano impreparati, erano in difficoltà, che c’era un rischio di attacco terroristico, che c’erano i black block a metter a ferro a fuoco la città. In una democrazia dovrebbe essere prevista, però, una gestione del conflitto consapevole, dovrebbe essere considerata possibile una relazione con chi contesta, contrasta e protesta?
Uno stato moderno può davvero dirsi tale quando non è in grado di farlo? Quando non è in grado di mostrare sempre e senza esclusione, come si gestisce un conflitto? Chi si macchiò di quegli atti di violenza e chi permise quei giorni di macelleria messicana, giustificando efferate violenze con il contrasto ai famigerati “Black Block”, ha mai affrontato questo tema? La risposta è nei filmati delle carceri di Santa Maria Capua Vetere.
Venti anni fa, all’indomani del 20 luglio 2001, dopo la morte di Carlo Giuliani, si sarebbe potuto stabilire un punto di partenza per discutere di come uno stato democratico deve sapere gestire lo spazio conflittuale. Partendo ad esempio dall’importanza della formazione dei tutori della legge, dalla gestione di questi stessi tutori come mezzi di diffusione della civiltà ma anche della necessaria e reale applicazione dei principi su cui sono basate le nostre istituzioni. E invece Genova non servì nemmeno a questo.
La violenza concentrò su di sé l’attenzione e grazie a questo, i potentissimi temi del social forum come il debito ecologico e sociale del nord del mondo, le alternative alla globalizzazione economica, le questioni di genere e la lotta alla povertà e alle diseguaglianze rimangono, ancora, testimonianze che si realizzano in poche e sparute pratiche. Quelle piazze di democrazia, quel fiume di ribellione e di richieste, furono cancellate dal dolore e dalla morte, schiacciate e mai più risollevate. Lo dicono le politiche migratorie che preferiscono seppellire migliaia di morti invece di metter in crisi relazioni commerciali, lo dice l’enorme divario economico ed ecologico tra nord e sud del mondo e, non in ultimo, lo dicono i pestaggi con cui sono stati puniti quei detenuti oggi, a seguito di una rivolta. Violenze ingiustificabili e inumane che, come dice Luigi Manconi in una recente intervista all’ “Huffington Post”, definiscono il luogo stesso: “[…] il carcere diventa un luogo dove l’uso della forza, pur legittimo, rischia costantemente di farsi abuso e violenza illegale. E sfociare in trattamenti inumani e degradanti.”
Parliamo di violenze di chi dovrebbe, soprattutto in un luogo così profondamente delicato e secondo il nostro ordinamento volto alla riabilitazione, prendersi cura di ristabilire l’equilibrio che il delitto ha alterato e non imporre la barbarie. Come dicevo sono passati vent’anni, sono passati in tutto il mondo e in tutti i luoghi della Repubblica ma appare ancora oggi impossibile cambiare alcune logiche violente e repressive, almeno di una parte di chi gestisce l’ordine e quindi anche la democrazia in questo paese.
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